Giovanna AlbiL'inflazione annuale dell'Unione europea è stata, fino a luglio 2022, del 9,8%, dunque in aumento rispetto al 9,6% di giugno, mentre l'anno scorso era al 2,5%. I dati pubblicati da Eurostat, l'ufficio statistico della Ue, parlano chiaro: l'inflazione armonizzata dell'Italia, a luglio è calata leggermente all'8,4% (a giugno era all’8,5%), confermando il valore armonizzato reso noto il 10 agosto scorso dall'Istat. In buona sostanza, il Governo Draghi stava facendo il proprio dovere e farlo cadere è stato solamente un danno per tutti. Il dato, tra l’altro, era sotto la media dell'eurozona (8,9%) e della cosiddetta ‘area-euro’ (9,8%). I tassi annualizzati più bassi sono stati registrati in Francia, Malta (entrambi 6,8%) e Finlandia (8,%). I tassi più alti, invece, sono quelli dell'Estonia (23,2%), della Lettonia (21,3%) e della Lituania (20,9%). Rispetto al mese di giugno, l'inflazione è diminuita in sei Stati-membri della Ue ed è rimasta stabile in tre, benché sia aumentata in diciotto. Il quadro macroeconomico complessivo, tuttavia, è in peggioramento. E non si esclude la possibilità di una recessione tecnica. Naturalmente, l'inflazione è il valore che preoccupa di più, poiché le misurazioni ‘di fondo’ stanno ulteriormente salendo. Ma anche se entrassimo in recessione, con relativa diminuzione della produzione e un abbassamento della curva di domanda, resta improbabile che le pressioni inflazionistiche scendano da sole. Siamo cioè di fronte a uno ‘shock da offerta’ che sta rallentando la crescita e, allo stesso tempo, aumenta i prezzi. Ma tale abbassamento della crescita non è sufficiente a indebolire l'inflazione, pur riducendo le pressioni sui prezzi attraverso una domanda più debole. Con un tasso d'inflazione europea salito, a luglio, dell'8,9%, anche i reinvestimenti previsti dal programma pandemico ‘Pepp’, che nelle scorse settimane hanno fatto abbassare lo ‘spread’ dopo esser stati attivati come ‘prima linea di difesa’ dai rischi di frammentazione nell'area-euro, debbono essere proporzionati. Ciò implica che i fondi, anche quelli previsti dal nostro Pnrr, vadano attivati solo nella misura necessaria: brevi interventi che possono essere sufficienti a stabilizzare i mercati. Insomma, tutto sommato ‘niente di che’, si potrebbe dire. E per l’Italia, le previsioni sono meno negative di quanto possa apparire a prima vista. Il dato realmente difficile da digerire, infatti, è un altro: si tratta di un’inflazione che tende a ‘scaricarsi’ sui ceti deboli, poiché innalza i prezzi di molti beni di consumo e di uso comune, riportandoci agli anni ’70 del secolo scorso. E’ una difficoltà che l’Italia ha già vissuto e che andrebbe contrastata con un ‘colpo di reni’. Ovvero, con un rilancio della crescita da impostare già a fine anno, aiutando sia le imprese, sia i ceti meno abbienti. Per la crescita, insomma, servirebbe una risposta di consumo dei ceti medi e medio-bassi, ma senza esagerare con la circolazione di moneta, che finirebbe con l’innescare una nuova spirale inflazionistica. Una regola che, finalmente, qualcuno ha cominciato a comprendere: anche stampare moneta genera inflazione, poiché i mercati non alzano i prezzi solamente quando un bene diventa raro, bensì anche nel caso opposto. Ovvero, quando gli operatori osservano molto denaro in circolazione. Un punto che il professor Tremonti, anche se un po’ in linea di principio, di recente ha descritto in più sedi con lucidità e competenza. E che bisognerebbe contrastare con un rilancio della produzione interna e con il sostegno alla piccola e media impresa, congiuntamente alla domanda di consumo. Quella di Giulio Tremonti è un’analisi tecnicamente corretta: niente da dire.





Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio