In una fase storica caratterizzata dalla cosiddetta
‘post verità’, dispiace dover constatare come, talvolta, non sia affatto la
parola ‘detta’ a generare
ingiustizia, ma quella
‘non detta’ o semplicemente
‘scritta’ in una disposizione o in una norma. Nell’agosto dello scorso anno, i
Talebani hanno ripreso il potere in
Afghanistan dopo una
fuga precipitosa delle forze occidentali, in particolar modo quelle
americane. E i nuovi giovani esponenti della
‘sharia’ fondamentalista più radicale si dicevano animati da buone intenzioni nei confronti delle
donne, promettendo un’applicazione non rigida dei loro
precetti religiosi. Invece, nel
silenzio generale, i
pregiudizi sono lentamente tornati in vigore. A cominciare dal
‘burqa’, l’abito arabo che ricopre integralmente il corpo femminile. Perché le
donne fanno
paura. Soprattutto, quando sono giovani e dimostrano ampiamente di essere la
specie più avanzata ed evoluta dell’umanità. Proprio in questi giorni, un decreto emesso dal nuovo governo di
Kabul ha stabilito che
“le donne non troppo anziane e quelle giovani devono coprire il loro volto a eccezione degli occhi, in modo da evitare provocazioni quando si incontrano con uomini che non sono parenti stretti”. E che
“se non hanno importanti mansioni da svolgere, farebbero meglio a restare in casa”. Il
pregiudizio cade, insomma, soprattutto per
questioni estetiche. Perché il
viso di una ragazza, quando si trova nel momento più rigoglioso della vita, rappresenta una
provocazione. Perché tutto ciò che è
bello umilia
l’arretratezza culturale. Le donne, infatti, possiedono proprio questo
‘segreto’: sono capaci di arrivare alla
materia che sconfigge lo
spirito. Esse sono in grado di dimostrare concretamente come il
regno di Dio, o il
paradiso che dir si voglia, sia
già qui tra di noi e non debba essere cercato in un’altra vita o nell’aldilà. Nel silenzio più funereo e tombale,
l’Afghanistan sta precipitando in un regime del tutto simile a quello instaurato nella seconda metà degli
anni '90 del secolo scorso. E questo silenzio che circonda il loro
medioevo patriarcale rappresenta la presa d’atto di come il
corpo delle donne sia talmente prezioso da dover essere
nascosto alla vista degli estranei, i quali non possono comprendere come
Dio sia capace di manifestarsi in infiniti modi e di
innalzare la vita umana anche attraverso la
materia. Anche nel
‘tempio’ del nostro
corpo. Nella
storia del teatro, per interi millenni il
corpo è stato
bandito. Soprattutto quello delle
donne, tanto che moltissimi
ruoli femminili in scena venivano interpretati da
attori ‘maschi’. La
presenza femminile su un palco, insomma, anche per noi occidentali rappresenta una
conquista relativamente recente. E il motivo di tutto questo è sempre stato lo stesso:
l’esibizione della bellezza, in molti casi della
perfezione, genera
scandalo. E’ un qualcosa di
sacrilego, che
sfiora l’immoralità. Le
donne sono una
provocazione: la prova stessa dell’esistenza del
male che combatte soprattutto dentro di noi. Siamo noi esseri umani il vero
oggetto del contendere; siamo noi stessi, la vera
‘posta in palio’. Ebbene, noi vogliamo cominciare a respingere tutto questo con ostinazione. Noi vogliamo essere
soggetti, individui e non
‘oggetti’ mossi come delle
pedine sulla
'scacchiera' della Storia. E in questo nostro voler essere
liberi, pretendiamo che tale libertà, che questo momento di
‘pura soggettività’ possa essere esercitata anche dal
genere femminile. Non in quanto
genere, ma
contro ogni
genere. Anche a costo di rendere
l’estetica una nuova
metafisica oggettiva e
universale. La prova stessa di come la
materia sia in grado di
penetrare il cielo. E’ questa la
rivoluzione che fa veramente
paura. E’ questa la
sfida che le donne sono in grado di
testimoniare e che molti uomini, ancora oggi, pretendono di nascondere.
“Le donne ne sanno una in più del diavolo”, diceva un antico adagio popolare. Probabilmente, le cose stanno proprio così.
Da sempre.