Giovanna AlbiL’immagine della primavera in letteratura si colloca su più piani di lettura e affonda le sue radici nella tradizione più antica. Occorre, pertanto, limitare il percorso alla letteratura occidentale, benché anche l’oriente abbia lungamente riflettuto sul tema e, per il mondo asiatico, la stagione sia quella nella quale si colloca il giusto mezzo tra le diverse fasi del ciclo annuale, quella in cui si trova un punto di incontro tra il caldo e il freddo, l’umido e il secco. Di questo clima gode la zona ionica dell’Anatolia, che è la terra di mezzo felice tra la Doride e l’Eolide. Ma in questo caso ci spostiamo su di un piano di riflessione soprattutto filosofico e geografico, che meriterebbe un approfondimento a parte su testi come quelli di Ecateo di Mileto (Ionico) o di Aristagora (Ionico), oppure riguardante i primi filosofi ‘presocratici’, che ricercavano l’archè (l'origine, ndr) in tutte le cose.

La primavera dell’antica Grecia
Rimanendo nella letteratura d’occidente, il pensiero corre subito a Omero, in particolare al VI canto dell’Iliade, nel passo del celeberrimo incontro tra Glauco e Diomede, che seppur nemici, si scambiano le armi in quanto si scoprono legati da antichi rapporti di ospitalità (Xènia). Ora, si deve sapere che l’ospitalità era sacra presso i Greci. Essa legava le stirpi degli uomini in un sacro vincolo che si protraeva in eterno, di generazione in generazione. La storia dell’uomo però nulla era rispetto a quella dell’universo. La prima riflessione filosofica, in tal senso, la troviamo nelle risposta di Glauco a Diomede, quando costui gli chiede di delineare la storia della sua stirpe. Quindi, il ghènos (la stirpe, ndr) è anch'esso un concetto sacro per i Greci, così come lo era il vincolo dell’ospitalità, mentre il vero 'tiranno' è il tempo, che tutto trascina rovinosamente; il rito dell’ospitalità è un tentativo di perpetuare la memoria della specie umana, legandola in rapporti di fraternità. Di qui, le celebri parole di Glauco: “A lui disse a sua volta il fulgido: Figlio di Ippoloco, Tidide magnanimo, perché domandi la stirpe? Quale è la stirpe delle foglie, tale è quella degli uomini. Le foglie alcune il vento le spargea Terra, altre la selva rigogliosa le fa nascere e giunge la stagione di primavera; così la stirpe degli uomini, una nasce, una si spegne. Ma se vuoi sapere anche questo per conoscere bene la nostra stirpe, essa a molti uomini è nota…”. Passo fondamentale dell’opera, che si trova proprio a un suo quarto ed è il primo momento in cui la narrazione della guerra di Troia si interrompe per lasciare uno spazio di meditazione sulla condizione dell’uomo, diviene tòpos letterario ripreso dalla letteratura successiva. La storia delle stirpi è tanto fragile, quanto quella delle foglie che seguono il corso delle stagioni; in autunno cadono a terra, per poi rinascere rigogliose nella stagione della primavera: parimenti le stirpi. Ci troviamo di fronte alla più celebre similitudine della letteratura di occidente, riveduta e corretta dal poeta elegiaco greco Mimnermo nel fammento 8, Gentili: “Come le foglie/che fa germogliare la stagione di primavera/ricca di fiori/appena cominciano a crescere ai raggi del sole/noi, simili a esse/ per un tempo brevissimo godiamo i fiori della giovinezza/ né il bene né il male conoscendo dagli dèi. Oscure sono già vicine le Kere/l'una avendo il termine della penosa vecchiaia/l'altra della morte. Breve vita ha il frutto della giovinezza/come la luce del sole che si irradia sulla terra. E quando questa stagione è trascorsa/subito allora è meglio la morte che vivere. Molti mali giungono nell'animo: a volte/ il patrimonio si consuma/e seguono i dolorosi effetti della povertà; sente un altro la mancanza di figli/e con questo rimpianto scende all'Ade sotterra/un altro ha una malattia che spezza l'animo./Non v'è un uomo al quale Zeus non dia molti mali”. Si tratta di un’elegia pervenutaci per intero, in cui si pone in relazione la durata della rigogliosa primavera con la giovinezza fiorita, dopo di che morbo, vecchiaia e morte fondano quel pessimismo cosmico che verrà ripreso da Giacomo Leopardi.

Il pessimismo cosmico di Leopardi
Con Giacomo Leopardi, la primavera si caratterizza con più piani di lettura ed è topicamente metafora delle illusioni della giovinezza, che l’età più matura tradisce. Immediato il confronto con l’idillio ‘A Silvia’: “Sonavan le quiete stanze/e le vie d'intorno/al tuo perpetuo canto/allor che all'opre femminili intenta sedevi/ assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno”. Siamo di fronte a una poesia insuperabile per la sua atmosfera struggente, in cui il mese di maggio, apice della primavera, coincide con la coltivazione nel petto degli adolescenti del loro mondo illusorio, destinato a cadere rovinosamente “all’apparir del vero”. In una visione più ampia, la primavera coincide con la fase più felice dell’umanità, idealizzata come una sorta di Eden precedente il peccato originale, quando gli uomini erano tutt’uno con la natura che, generosa e fertile, distribuiva a piene mani i suoi frutti senza chiedere nulla in cambio. In seguito, ci sarà la nascita del peccato e la conseguente condanna, che proviene dalla ragione. Sia come sia, la primavera è anche la stagione nella quale vivono gli dei; si veda, per esempio, il Libro VI, vv. 150 ss: “La Dea, che guarda con azzurre luci/all’Olimpo tornò, tornò alla ferma de’ sempiterni Dei sede tranquilla/che nè i venti commuovono, nè bagna la pioggia mai, nè mai la neve ingombra/ma un seren puro vi si spande sopra da nube alcuna non offeso/e un vivo candido lume la circonda/in cui si giocondan mai sempre i Dii beati". Qui la dea Atena, scesa dall’Olimpo per instillare in Nausicaa, figlia di Alcinoo, re dei Feaci, il desiderio dello sposo, compiuta la missione risale in questa dimensione atemporale, che coincide con un’infinita primavera. Come possiamo notare, infatti, essa è anche la stagione che caratterizza tutti i ‘loca amoena’ della letteratura: anche i Feaci, abitanti di Schèria, Isola dei Beati, godono di tutte le bellezze della primavera: hanno navi senza timoni che scorrazzano tranquillamente nel mare, mentre la natura fiorisce prodiga di ogni bene fuori dal tempo.

La primavera dei latini secondo Lucrezio
Esiste una dea della primavera? Certamente sì. Ed è Afrodite, l’alma Venus del ‘De Rerum Natura’ di Lucrezio, che si apre proprio con 'l’Inno  a Venere' che porta la vita rendendo fertili i campi e feconde le donne. Ovviamente, in quanto dea dell’amore, coincide con la primavera, con il risveglio dei sensi e della natura tutta, vv. 1-49: “Genitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei, Venere alma, che sotto i mobili astri del cielo rendi popolosi il mare sparso di navi, e le terre che producono messi, perché per causa tua tutte le stirpi di esseri umani vengono concepite, e nate, vedono la luce del sole: al tuo passaggio dea fuggono le nubi del cielo e il vento,per te la terra che opera meraviglie si riempie di fiori soavi, per te sorridono le distese del mare, ed il cielo rasserenato risplende di luce diffusa. Infatti, non appena si è rivelato l'aspetto primaverile del giorno, e il soffio vitale del favonio, liberato, prende vigore, per primi gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo, o dea, colpiti nel cuore dalla tua forza. Poi fiere e armenti balzano sui pascoli, e attraversano i fiumi impetuosi: così, conquistati dalla tua grazia, ti seguono ovunque desideri condurli. Infine nei mari, sui monti, nei fiumi travolgenti, nelle frondose dimore degli uccelli…”. Ci troviamo innanzi alla più famosa celebrazione della primavera, che come abbiamo letto possiede tutte le caratteristiche dei ‘loca amoena’. Eden in primis.

Ugo Foscolo
Una Venere simile la troviamo anche nel sonetto ‘A Zacinto’, di Ugo Foscolo, in cui la dea della bellezza rende feconde le isole del Mar Greco col suo primo sorriso ed è sempre portatrice di vita coincidente con la stagione fiorita di primavera: “Né più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque/Zacinto mia/che te specchi nell'onde del greco mar da cui vergine nacque Venere/e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque/le tue limpide nubi e le tue fronde/l'inclito verso di colui che l'acque…”. In questo caso, il primo sorriso di Venere coincide col ritorno della primavera e con la risalita dagli Inferi di Proserpina, rapita da Plutone e restituita alla madre a patto che se ne stia sei mesi nell’Ade e gli altri sei sulla Terra. Che la primavera coincida con i risvegliarsi dell’amore, con le sue gioie e i suoi tormenti, si desume anche dalla lettura dello ‘Jacopo Ortis’, sempre di Ugo Foscolo. Specie nelle lettere del 14/15 maggio, dove la bella stagione si risveglia per breve tempo dopo il bacio dell’amata Teresa, promessa sposa a Edoardo. Benché l’esito della vicenda sia notoriamente negativo, Jacopo assapora per un breve tratto tutto il fulgore della stagione amorosa, descritta con tratti che richiamano molto l’inno a Venere di Lucrezio. Quindi, si può senza dubbio desumere che la letteratura europea sia stata profondamente condizionata dal modo in cui la primavera viene tratteggiata e cantata nella cultura classica (neo-classicismo foscoliano).

Il 'sommo' non poteva mancare
A questo modello, ovviamente, non si sottrae Dante Alighieri, nei canti XXVIII/XXX del Purgatorio, alla cui primavera si sarebbe ispirato nientemeno che Botticelli. In un altro passo del Paradiso, in particolare, parte conclusiva di una più estesa descrizione, si fa riferimento anche alla dea Proserpina, di cui sopra abbiamo accennato: “E vidi lume in forma di rivera fluvido di fulgore/ intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscían faville vive/e d'ogni parte si mettíen ne' fiori/quasi rubin che oro circunscrive". (Paradiso – Canto XXX, vv. 61 e segg.).

Hermann Hesse
Fin qui abbiamo parlato della primavera come riscoperta della natura e dei sensi. Ma se vogliamo trovare una diversa percezione di questa stagione, ci dobbiamo spostare in Germania con Hermann Hesse, il cui il famoso risveglio di 'Siddharta' avviene proprio in questa stagione ed è di carattere mentale e spirituale, risultato di una ricerca interiore (der dasein) faticosa e audace, radicalmente influenzata dalla filosofia orientale: “Mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta”.





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