Quella relativa alla nostra dipendenza energetica dal gas russo è una vicenda di continui ‘stop and go’, di decisioni emotive e irrazionali, di periodiche amnesie e mancati investimenti. E, ovviamente, anche di qualche spreco, che in Italia non manca mai. Tutto cominciò con il disastro di Chernobyl, che condusse il Paese a un referendum, tenutosi nel novembre del 1987 e che sancì la chiusura delle nostre centrali nucleari. Si pensava, allora, all’esigenza di dover aumentare la nostra produzione energetica interna, dato che i consumi risultavano in continuo aumento. E infatti, nell’estate del 1988, il governo De Mita approvò il Pen (Piano energetico nazionale, ndd), che si proponeva di aumentare la nostra produzione derivante da fonti energetiche rinnovabili del 44% entro il 2000. Al fine di attuare concretamente il Pen, vennero in seguito approvate le leggi n. 9 e 10 del 1991, dedicate alla ricerca e sfruttamento degli idrocarburi, alla promozione del risparmio e dell’efficienza energetica e allo sviluppo delle fonti rinnovabili. Eravamo nell’immediata vigilia di ‘Mani Pulite’, con i governi Andreotti VI e VII che non furono così immobilisti come spesso si tende a credere. Al contrario, la nostra classe politica sembrava essersi finalmente svegliata dopo una lunga fase di torpore, che durava da tempo in questa materia. In ogni caso, questi primi impulsi condussero ai seguenti obiettivi: a) rivedere la certificazione energetica per tutti gli appartamenti o gli edifici venduti o affittati; b) porre dei limiti al consumo energetico dei nuovi edifici; c) stabilire l’obbligo all’integrazione di impianti rinnovabili negli edifici pubblici; d) contabilizzare il calore e la termoregolazione in tutti gli edifici; e) finanziare a fondo perduto una serie di investimenti necessari all’efficientamento energetico. Ovviamente, solo alcune di queste norme furono applicate: all’improvviso, scoppiò lo scandalo di ‘Mani pulite’ e, almeno fino ai primi anni duemila, nessuno si occupò più del problema. Il decreto che avrebbe dovuto regolare i limiti al consumo energetico dei nuovi edifici giunse alla sua approvazione definitiva solamente nel luglio del 2005, con un ritardo spaventoso rispetto ai 180 giorni previsti dalla legge n. 10 del 1991. Un provvedimento che, solo dopo una ventina di giorni, si ritrovò superato dalla prima direttiva europea in materia: l'Epbd per il risparmio e l’efficienza energetica. Si trattava di un piano che giunse alla sua concreta applicazione solamente nell’autunno del 2008. Epoca in cui si cominciarono, finalmente, a rinnovare le vecchie caldaie dei nostri stabili, a collocare innovative valvole di misurazione e controllo delle temperature sui termosifoni delle nostre abitazioni e a rivedere l’etichettatura dei prodotti e degli elettrodomestici. Un andamento lentissimo rispetto a quanto stava accadendo, invece, in altri settori del comparto energetico. Come, per esempio, quelli della metanizzazione e della rete del gas, che videro un’espansione forsennata, giungendo ben presto a coprire il 40% dei nostri consumi nazionali. Un ‘boom’ che possedeva una serie di motivazioni, alcune anche valide, fondate sul raggiungimento della nostra “indipendenza energetica” ma che, al contrario, divenne la premessa all’incapacità delle nostre classi dirigenti di pensare ad alternative più lungimiranti, dato che le risorse sul nostro territorio sono alquanto scarse. E infatti, subito dopo la ‘fiammata’ degli anni ’90 del secolo scorso, la produzione cominciò a calare e i prezzi a salire, rendendo poco conveniente andare a recuperare il nostro gas. Inoltre, tornando alla legge n. 10 del 1991, accanto alle fonti rinnovabili, in sede di approvazione del testo definitivo vennero inserite le cosiddette ‘fonti assimilate’. Si trattava di un emendamento aggiuntivo, che chiedeva la ‘cogenerazione’ - ovvero una produzione combinata di elettricità e calore - e il recupero del ‘calore di scarto’ delle produzioni industriali. Un’idea anche valida di per sé, che tuttavia finì col bloccare ogni forma di ricerca e sviluppo delle fonti rinnovabili, le quali dovettero attendere lo stimolo di un'ulteriore direttiva europea. Si pensi che la delibera del Comitato interministeriale prezzi, la quale definiva gli incentivi per le rinnovabili (la cosiddetta Cip 6/92), di fatto è andata a finanziare la cogenerazione industriale. Soprattutto, quella derivante da aziende che facevano un largo uso di energia proveniente dalle fonti fossili. La norma era nata per riuscire a stimolare la cosa opposta, ma finì con l’essere applicata ‘al contrario’: pazzesco, come al solito... Sia come sia, una serie di ‘fronti’ e di lobbies stavano ormai cominciando a farsi sentire: un nutrito gruppo di nuclearisti, innanzitutto, che chiedeva di rilanciare l’opzione nucleare e che mai aveva 'digerito' il referendum del 1987; petrolieri e industriali che non volevano rinunciare alle commesse e ai guadagni del passato nell’importare prodotti e idrocarburi ricavati da fonti fossili; un assalto ai bandi europei per la produzione di energia da fonti ‘eoliche’, che finì col devastare il patrimonio paesaggistico di molte zone e regioni italiane, anziché puntare sullo sviluppo del solare e dell’idroelettrico. E, soprattutto, una mancanza di visione complessiva di medio-lungo periodo, perché qui da noi si ragiona solamente sull’oggi e sui guadagni a breve termine. Una possibile occasione per uscire dalla nostra situazione di dipendenza energetica si materializzò nei primi anni 2000, quando l’Unione europea obbligò l’Italia a promuovere il risparmio, l’efficienza energetica e le fonti di energia rinnovabili attraverso un pacchetto di direttive molto precise. Sembrava finalmente che il Paese stesse imboccando la strada giusta, anche se non per merito suo: lo si faccia notare, per favore, ai tanti ‘sovranisti all’amatriciana’ di casa nostra. Infatti, i consumi energetici iniziarono a calare, lo sviluppo delle rinnovabili invertirono in positivo la loro tendenza alla staticità e le importazioni di gas erano in calo. Lentamente, ma inesorabilmente, si scese da un fabbisogno proveniente dall’estero dell’86% circa della nostra energia, al 76% del 2014. Una tendenza alimentata, soprattutto, dagli impianti fotovoltaici, ma assai ‘mal governata’, poiché non è riuscita a generare risultati stabili nel tempo. Purtroppo, gli investimenti programmati per realizzare una vera industria in grado di coprire l’intera filiera di produzione dei moduli e la relativa componentistica, non ebbero modo di stabilizzarsi. In secondo luogo, ci si ritrovò nel paradosso di aver investito moltissimo quando il fotovoltaico costava tanto, contribuendo a renderlo conveniente a livello globale, per poi rinunciare ad approfittarne. E oggi, siamo quasi interamente dipendenti dalle importazioni persino nel settore tecnologico, cioè quello dei pannelli e di tutta la relativa componentistica. Infine, un brusco ‘stop’ agli incentivi e una serie di provvedimenti retroattivi assai poco comprensibili, che hanno tolto fiducia nello sviluppo di tutto un settore e messo in discussione la credibilità stessa dello Stato, hanno causato una ‘frenata’ generale cominciata proprio nel 2014 - anno dell’invasione russa della Crimea - che si è protratta, giusto giusto, fino a oggi, in cui dovremmo diversificare. Ecco, dunque, per quali motivi ci ritroviamo in una situazione di dipendenza estrema da due combustibili fossili: petrolio e gas. I quali costituiscono il 70% dei nostri consumi e sono quasi tutti importati, con ‘bollette’ energetiche da 40 miliardi annui prima della crisi in Ucraina e relativi aumenti dei prezzi più recenti. Risorse che sono andate ad alimentare - e stanno ancora alimentando - regimi come quello russo, che tanto piace alle destre ‘nostrane’, insieme a quello saudita, che qualcuno ha definito addirittura: “Un rinascimento”. Eh, sì: un ‘rinascimento’ pagato proprio da noialtri. Insomma, ragazzi: a prescindere dalla Russia, dall’Ucraina e dal ‘casino’ di portata mondiale che si è venuto a creare di recente, siamo di fronte a una questione che non può essere risolta con la stessa mentalità di chi l’ha creata. E sarebbe il caso di spiegarlo agli italiani, anziché perdersi in 'baruffe' televisive che, alla fine della ‘fiera’, producono solo polarizzazioni tardo-ideologiche, tanto inutili, quanto dannose. Dovremmo fare, invece, l’esatto contrario: profittare della situazione per riuscire a cambiare, finalmente, il nostro futuro. Anche per andare a risolvere la crisi climatica e dare prospettive di vita e di lavoro alle giovani generazioni.