All’inizio del periodo festivo, l’attore
Mario Biondino ha presentato, presso il
Teatro degli Audaci in
Roma, uno dei suoi
‘graffianti’ spettacoli, dal titolo:
‘Uno Tantum’. Cinque atti brevi molto ironici, a tratti esilaranti, in cui una
riflessione colta viene messa a sintesi con alcuni
elementi ‘pop-demenziali’, all’interno di una visione alquanto
pessimista del mestiere di
attore e di
artista. Al centro della sua analisi, questa volta, c’era proprio la pandemia da
Covid 19 e gli effetti di questa sulla
psicologia sociale e
antropologica dei
rapporti umani. Cinque atti
‘sferzanti’, in cui
Mario Biondino è riuscito a porre al pubblico una serie di domande a cui la nostra società risulta ormai incapace di rispondere, come se rifiutasse di voler vedere una parte di se stessa: quel
nichilismo distruttivo e
autodistruttivo che, da tempo, abita la nostra realtà quotidiana, ma che ci rifiutiamo di voler
guardare negli occhi.Mario Biondino, finalmente di nuovo sul palco, a dicembre, presso il Teatro degli Audaci in Roma: che impressione ha avuto da questo suo ritorno in scena?“È stata certamente un’esperienza emozionale complessa, una miscela di sentimenti e pensieri contrastanti. Un attore vive del palco, ma è veramente un attore (prendiamo attore come sostantivo neutro, valido per tutti i generi) quando è il pubblico, a sua volta, a vivere della sua presenza sul palco. Altrimenti è un’illusione, poco più che una forma di masturbazione. E allora le domande si accavallano: davvero la pandemia avrebbe cambiato il mondo del teatro e, in generale, della rappresentazione dal vivo soltanto perché, per il momento, si sono rese necessarie misure come la mascherina, il distanziamento e il pass vaccinale? È davvero tutto qua? Esiste ancora un pubblico così esigente e bisognoso dell’attore e dello spettacolo dal vivo? E il nostro settore è ancora in grado di scatenare questo bisogno, questa trepidazione, in un sistema umano e sociale scosso sin nelle fondamenta dagli ultimi eventi storici? In altre parole, chi è invecchiato prima: il produttore o il fruitore? E davvero ho pensato tutte queste cose, una volta salito sul palco? No, mi sono limitato a divertirmi, a mostrare cosa avevo progettato e provato fino alla nausea. Al massimo mi sono chiesto: “Ma oltre che per me, è importante davvero per qualcun altro questo mio ritorno”? E la domanda rimane, tuttora, senza risposta”.Nell’ultimo dei suoi monologhi, lei ricostruisce in forma ironica le problematiche incontrate dal mondo dello spettacolo durante la pandemia, lasciando emergere un visione assolutamente miope, da parte del mondo politico, rispetto alla cultura e alle professioni artistiche: da dove nasce, secondo lei, questo distacco?“Nasce dalla convinzione della massa che, per vivere, non serva il teatro o l’arte in generale: per vivere serve il pane; serve avere a disposizione un mezzo, pubblico o privato, per spostarsi da casa all’ufficio e viceversa; servono le multe per eccesso di velocità con cui il comune sovvenziona il rifacimento dell’asfalto stradale; serve l’antigelo nelle tubature; serve il rinnovo dei contratti stagionali; servono il sapone per i piatti e quello per la lavatrice. L’arte e il teatro, invece, servono per ‘esistere’, così come servono gli ideali di giustizia sociale, le idee di democrazia e di comunità, la ricerca della bellezza e dei sentimenti. La cultura è una forma di analisi dell’esistenza e per alcuni, come me, è una chiave di lettura della realtà, ovvero di ricerca di senso anche nella vita. La politica non può occuparsi di questo a fronte, in primo luogo, di una ‘classe culturale’, nel migliore dei casi, inascoltata o, nel peggiore, ‘imputtanita’ dalla società dell’intrattenimento. In secondo luogo, a una massa di consumatori è stato fatto credere che basti cambiare lo smartphone o avere una connessione veloce per essere felice. La politica, secondo me, dovrebbe occuparsi della felicità dei cittadini. Ma la felicità è un fatto etico, profondo perché maturato, cioè duraturo e razionale, non piuttosto una sensazione di ‘euforia’ che è, invece, lo status emozionale oggi più perseguito, dalla politica all’informazione; dalla pubblicità fino ai rapporti umani. Siamo dentro una società dei consumi e siamo ‘consumati’. E quando hai fretta, che ci fai con l’arte? Al massimo, essa è un palliativo per riempire un’oretta: una consolazione dalla disillusione”.Cosa pensa del fenomeno ‘No vax’? Sono anch’essi ‘figli’ della società dell’intrattenimento?“Non ho una buona opinione di questo fenomeno. Mi limiterò a dire che trovo lampante che i ‘negazionisti moderni’, dal vaccino alla sfericità terrestre, siano il frutto di un abbassamento culturale in moto da più di trent’anni e, a mio avviso, nato e voluto proprio per motivi economico-commerciali. Un consumatore è ‘meno’ di un cittadino: un cittadino s’informa, è razionale nelle sue scelte, anche quelle elettorali; un consumatore, invece, no. Il cittadino si sente parte di una realtà complessa, di una comunità; il consumatore, al contrario, è il mero protagonista dei suoi desideri, del film a tutti i costi ‘meraviglioso’ che dev’essere la propria vita: l’eroe di una lotta; l’eletto fra i pochi...”.Una folta schiera di giovani professionisti, alcuni anche molto bravi, non riesce a esercitare il proprio mestiere: perché, secondo lei? C’è un problema generazionale?“Non c’è una sola risposta a questa domanda: c’è il problema - di cui finora ho solo accennato - di una minor richiesta di professionalità all’interno del procedimento di creazione artistica, connessa alla perdita graduale, nel pubblico, della capacità di distinguere ciò che è culturalmente rilevante rispetto a ciò che non lo è. Senza contare che la differenza fra pubblico e lavoratori dello spettacolo, ormai, si è fatta sempre più esigua. C’è poi un discorso generazionale legato, oltreché a un’inflazione del mestiere - siamo troppi e troppi giovani professionisti che non riescono ad avere l’occasione di dimostrare il proprio valore e a emergere all’interno di un sistema ormai saturo - anche al fatto che la nostra è un’epoca di transizione: il mondo del teatro - e non solo - ha bisogno di rinnovarsi per non morire (molti suoi ‘pezzi’ sono già in decomposizione), ma nella stragrande maggioranza dei casi questo bisogno o non è avvertito, o è volutamente ignorato. A legare i ‘dopolavoristi’ che hanno fatto del palco il proprio hobby e alcuni esponenti della cosiddetta ‘vecchia guardia’ è la paura di perdere quella normalità consolante, o illusoria, già acquisita. Dice il Mario Biondino ‘cattivo’ dell’intervista inscenata a conclusione dello spettacolo ‘Uno Tantum’, puntandosi narcisisticamente una pistola alla tempia: “Io rivendico il mio diritto a esse’ artista e fotomodello; a fa’ dodici stages all’anno e a nun sape’ ancora come se legge ‘n verso; vojo continua’ a firma’, giulivo, contratti in cui nun so capi’ nemmeno la differenza fra minimo garantito e minimo garantito giornaliero; vojo continua’ a scrive’ spettacoli de cinque pagine e mezzo, senza nemmeno avecce una porca idea de dove fallo ‘sto spettacolo; vojo continua’ a di’ che la dizione nun serve, perché non m’ha mai aiutato a porta’ pubblico; vojo continua’ a illudeme che, se metto quattro secondi de musica protetta, la Siae nun me dice niente (è da quando ho iniziato che, periodicamente, sento ripete ‘sta stronzata…); vojo continua’ a ignorare bellamente i bandi europei e regionali “perché tanto li vincono sempre i soliti”; vojo continua’ a scorre’ come ‘n forsennato la lista dei contatti whatsapp la settimana prima del debutto, in cerca de pubblico; vojo continua’ a di’ che la differenza fra amatoriale e professionista nun esiste, finché non me cominciano a chiama’ pure a me “professionista”; vojo continua’ a guarda’ in cagnesco tutti quelli che me dicono che il mio non è un lavoro serio, perché io nun vojo che lo diventi. Questa è la normalità che me manca: una normalità che me fa schifo…”.Come poter cambiare la situazione, o quantomeno reindirizzarla verso la dignità professionale?“Pur essendo il mio ritorno sulla scena, ‘Uno Tantum’ ha voluto rappresentare una sorta di addio: un addio a un determinato tipo di teatro e di approccio allo spettacolo. L’urgenza di rinnovamento è il vero nucleo tematico. E se, nella prima parte (le scene ‘Amoreamaro’; ‘Un dramma chiamato desiderio’; e ‘Acca’), fornisco un esempio di come, secondo me, dovrebbe essere la nuova drammaturgia (non solo comica), nella scena quarta, quello dell’intervista (con la Scoria) vado poi a esporre la teoretica di questo rinnovamento. Dice, allora, il Mario Biondino ‘buono’, quello ‘costruttivo’: “Della normalità, mi manca il diritto ad assumermi le mie responsabilità: chi fa il mio mestiere si assume ogni giorno dei rischi economici e artistici. A quei rischi, io credo si debba affiancare, ora, una responsabilità che era già parte del teatro come concetto, ma che abbiamo dimenticato: dobbiamo, io credo, pensare a una ricostruzione che ci preveda, in cui non solo vengano tutelati i diritti di tutti i lavoratori dello spettacolo, ma che ponga al suo centro anche il dibattito sulla nostra utilità culturale, sul nostro apporto alla crescita civile dello spettatore”. Questa è la proposta di quel rappresentante, scelto a caso e da me interpretato, dei “più famosi tra gli sconosciuti e dei più sconosciuti fra i famosi”.Ma quanti sono quei soggetti che risultano essere “i più famosi tra gli sconosciuti e i più sconosciuti tra i famosi”? Non è una questione che affligge un po’ tutte le categorie professionali del Paese?“Sono un esercito e, certamente, non solo nel settore teatrale, ma anche in quello musicale, quello della danza, della pittura e in tutti gli altri settori artistici. Cosa fare di noi? Di nuovo: serviamo? E a chi serviamo? Non troveremo nessuno disposto a legittimarci, se non lo faremo da soli: in questo Paese c’è tanto, tanto bisogno di bellezza, cultura, professionalità. E, posso assicurarlo, sotto la cenere, pronto a scintillare, ce n’è tanto di questo materiale, in primis umano. Esiste e resiste, malgrado tutto”.