Lorenza MorelloPer oltre un anno e mezzo dallo scoppio della pandemia, il divieto di licenziamento (economico) ha continuato a essere il principale oggetto di contesa nella discussione sulle politiche del lavoro. La norma aveva una forte rilevanza simbolica e politica ma, in realtà, non è chiaro quale sia stato il suo ruolo effettivo nel limitare i danni economici e sociali del Covid 19, al di là della rete offerta dalla Cassa integrazione e le - più declamate che reali – ‘corpose’ misure per il credito. Nonostante questi dati, si continuava a parlare del divieto di licenziamento come di uno strumento per evitare che le persone perdessero la loro occupazione, facendo finta di ignorare che in un mercato del lavoro in perenne movimento (ogni giorno nel mondo migliaia di persone trovano lavoro, lo perdono o lo cambiano, ndr) una norma, per quanto radicale, non può congelare tutto in attesa che ‘torni il bel tempo’. E si è ignorato altresì che per molti lavoratori continuare con la Cassa integrazione non fosse una soluzione sostenibile: in Cig, in Italia, si è pagati poco e non solo non si può fare un altro lavoro o lavoretto (se non in 'nero'), ma nemmeno si hanno opportunità di formazione. Quanto era sostenibile un sistema che tiene assolutamente ferme centinaia di migliaia (negli scorsi mesi, anche milioni) di persone in cambio di una retribuzione ridotta? Poco, anzi niente. E infatti, ‘après nous, le déluge’. Lo rimarca il fatto che all’indomani della scadenza della proroga, i licenziamenti hanno iniziato a piovere senza alcun preavviso su tante, troppe persone inconsapevoli della sorte che sarebbe toccata loro o che (come nel caso delle lavoratrici che si sono recate a ritirare alcuni effetti personali e hanno trovato i capannoni dove lavoravano già smontati) era già spettata loro senza che lo sapessero. E anziché sul ripensamento di un mercato del lavoro sano o non viziato, con un equilibrio delle parti che possa definirsi tale, il dibattito verte - indecorosamente - sul fatto che comunicare il licenziamento via Whatsapp o tramite Pec sarebbe incivile: molto meglio a mezzo raccomandata (perché secondo un autorevole esponente sindacale dixit: “Almeno incontri il postino”). Ebbene, in un Paese in stato di totale degrado giuridico, accettare che anche la politica e i sindacati facciano questo tipo di lotta non solo è rimarchevole, ma oltremodo esecrabile e condannabile. E’ necessario, per non dire fondamentale, ridare al lavoro e ai lavoratori il ruolo fondamentale che la Carta dei nostri padri costituenti riconosce loro all’articolo 1, laddove dichiara che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Si badi bene: non sul ‘sussidio’, né tantomeno sul reddito di cittadinanza, ma “sul lavoro”. La lotta che un qualsiasi politico, di un qualsiasi schieramento, dovrebbe fare, non in forza della propria ideologia e della propria appartenenza, qualora queste esistessero ancora (ma in un Paese che da 15 anni non elegge un presidente del Consiglio questa è una speranza ormai anacronistica), bensì in forza della Costituzione - e proprio per questo la lotta dovrebbe essere senza bandiere di Partito, perché a tutela di un diritto superiore alle barricate - sarebbe quella di garantire a ogni singolo lavoratore che un imprenditore in crisi, non appena ravvisasse anche solo il timore di chiudere i battenti, avvisasse prontamente i propri dipendenti e non preoccuparsi di quale mezzo utilizzare una volta che tutto è stato deciso e tutto è compiuto. Come sa bene chi conosce il mondo delle imprese, nelle aziende piccole o ancor più in quelle a conduzione poco più che familiare, solitamente è il lavoratore che si accorge delle difficoltà quasi prima del 'padrone'. Perché è lui che vede i fornitori che si lamentano se non vengono pagati; è lui a vedere che la materia prima o il magazzino non sono più fiorenti come un tempo; spesso è lui a mettere le mani "in cassa" e a vedere che i fondi scarseggiano e così via. Ma nelle catene a filiera lunga, nella Gdo (Grande distribuzione organizzata, ndr) o nelle multinazionali che spesso e volentieri delocalizzano, la percezione dello stato di difficoltà o di insolvenza da parte del lavoratore è spesso complicata, per non dire pressoché impossibile. A maggior ragione, dunque, è doveroso che questo attuale Governo che sostiene - e noi non ne dubitiamo - di avere tanto a cuore il benessere dei propri cittadini, si faccia carico di imporre a tutte le macrostrutture che creano ed eliminano posti di lavoro in a “blink of an eye” (visto che sono quasi tutte multinazionali straniere…) l’obbligo costituzionale, oltreché civile e morale, in una Repubblica come la nostra, che si dichiara "fondata sul lavoro", di comunicare al dipendente per tempo - e non “a tempo debito” - che gli affari vanno male. Cosi che questo possa da solo decidere se resistere e restare in “vigile attesa” o iniziar subito a cercare un altro impiego. Questo è il solo modo per far sì che la flessibilità non sia più intesa come un “ti licenzio quando voglio”, ma come “ho il tempo di cercare un altro impiego, prima di finire in mezzo alla strada”. Che poi l’annuncio tardivo sia comunicato via Whatsapp o per raccomandata, interesserà giusto qualche ‘radical chic’ da ‘talk show’, non chi con quello stipendio cerca di "camparci la famiglia” e tenere in piedi uno Stato che, sul tema delle politiche lavorative, risulta in emergenza da sempre.





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