C’è la crisi dei
‘semiconduttori’. E pochissimi ne parlano. Manca poco che si scatena una terza guerra mondiale tra la
Cina comunista e quella
nazionalista e quasi nessuno analizza un problema che si trascina sin dai tempi di
Chiang Kai Shek. Si tratta di quei
microchip fondamentali per
l’industria ‘tech’ più avanzata, che rischiano di mettere in crisi diversi settori, compreso quello
automobilistico. Una
crisi di approvvigionamento di
materie prime che non vedrà la luce almeno fino alla fine del
2023. E
'colossi' come
Renault, Skoda e
Maserati hanno dovuto rinunciare al lancio sui mercati dei loro nuovi
autoveicoli di punta. Un guaio serio, che rischia di rallentare l’uscita dalla
crisi ‘post-pandemia’, certificato nei giorni scorsi persino da
Standard and Poor’s, che ha tagliato le stime sulle
vendite-auto del
2021 e del
2022. Un comparto tutto da riorganizzare, perché adesso ci sarà chi vorrà
prodursi i microchip in 'casa propria', senza dover dipendere dal
‘quasi monopolio’ di poche aziende asiatiche, tra cui la
Tsmc che ha sede a
Taiwan. Sarebbe interessante notare come, dagli
anni ’70 del secolo scorso in qua, l’antica
Texas instruments americana abbia perso il mercato dei
‘chip’ (vengono chiamati così, in gergo tecnico,
ndr), in favore di una ditta che ha sede nell’isola di
Formosa e che oggi domina incontrastata comparti produttivi fondamentali, come quelli degli
smartphone, dei
personal computer, delle
automobili e di tutta
l’elettronica di consumo digitale, fino ad arrivare a quelle realtà che stanno sviluppando
l’intelligenza artificiale e lo
Iot (internet delle cose,
ndr). I
'colossi' rimasti sul mercato sono pochissimi: oltre alla già citata
Tsmc, che detiene il
'quasi monopolio' per la lavorazione del
silicio e delle altre
‘terre rare’, gli altri due soggetti realmente concorrenti sono la sud coreana
Samsung e le due cinesi
Smic e
Huawei. C’è da sottolineare che questi
microchip sono considerati, oggi, il
‘nuovo petrolio’. E che tale situazione ha comportato un aumento di
costi, prezzi e
tassi di inflazione per tutte le economie interne del mondo più avanzato. Siamo cioè di fronte a un guaio paragonabile alla
pandemia planetaria ancora in corso. Stando così le cose,
Pechino ha stabilito di lavorarsi il
silicio in casa propria. E per farlo ha incaricato una sua azienda, controllata dallo Stato ovviamente, che si chiama
Oppo - quinto soggetto sul mercato dei
‘chip’ in termini globali - di investire sulla creazione di una catena di
produzione interna, al fine di liberarsi dal dominio della taiwanese
Tsmc, dalla quale escono quasi la metà dei
semiconduttori utilizzati nel mondo e che ha, tra i suoi clienti, tutti i principali
'big' dell’elettronica, a cominciare dalla
Apple. Quest’ultima, a sua volta, sta pensando ad allargare la propria
‘partecipazione azionaria’ internazionalizzandosi, nel tentativo di riprodurre alcune fasi di
creazione industriale dei
microprocessori. E anche
Google e
Amazon stanno studiando le proprie
ricapitalizzazioni, finalizzate a raccogliere nuovi fondi da investire nel settore. Il
capitalismo sta praticamente cambiando
innanzi ai nostri occhi e nessuno, o quasi, ci sta facendo caso. I prezzi di ogni cosa stanno salendo e nessuno che si chieda:
"Perché"? Per non parlare del rischio di un nuovo
disastroso conflitto bellico tra la
Cina popolare e quella di
Taiwan (protetta dagli
Usa, ndr), le quali non si stanno
guardando in ‘cagnesco’ per questioni ideologico-politiche, bensì per motivazioni di
avidità generate dallo
‘stop forzato’ dell’intero sistema globalizzato, intervenuto a causa della
pandemia. Con le aziende di mezzo mondo ferme, infatti, si era bloccato anche
l’approvvigionamento di materie prime fondamentali, come il già citato
silicio, ma anche la
bauxite e altri minerali che, in genere, il
capitalismo globale sottrae ai
Paesi poveri, come quelli
africani (ma non solo…). In pratica, la ripartenza economica ha di fatto trovato
‘scoperti’ molti
colossi, che al momento
dell’inchiodata del
2020, denominata
‘chip crunch’, erano rimasti con poche scorte di
microchip utilizzabili, tagliando di fatto la produzione di tutto ciò che, durante il
lockdown, sembrava inutile. In buona sostanza, l’errore è stato di
scarsa lungimiranza, poiché ha costretto a comprare in fretta e furia tutti i
semiconduttori rimasti sul mercato, innalzando la curva di domanda. La
‘ripartenza’, inoltre, ha causato
l’impennata anche della domanda di
materie prime come il
silicio, la
grafite, il
litio, il
nichel e altri
‘semimetalli’ fondamentali per la produzione dei
circuiti integrati, danneggiando l'intera
filiera. Ma a prescindere dalla scarsa intelligenza dimostrata del sistema di mercato, il quale non ha saputo prevedere che, durante il
lockdown del
2020 bisognasse
diversificare la produzione, poiché l’intera popolazione mondiale, anche solo per
lavorare a distanza, avrebbe avuto bisogno, come minimo, di un
personal computer efficiente, siamo di fronte a una
reazione a catena devastante. A cominciare dal settore
dell’estrazione delle
‘terre rare’ (i
metalli necessari alla lavorazione dei
'chip', ndr), fino alle aziende che lavorano
‘conto terzi’, ovvero
senza fabbriche, poiché si limitano alla
progettazione e
all’assemblaggio dei
‘prodotti finiti’ per le industrie occidentali. Persino la californiana
Intel si ritrova nei
‘casini’, poiché non in grado di lavorare le
materie prime necessarie alla
produzione interna dei
microchip. In pratica, senza le risorse minerarie, provenienti da
Africa e
America Latina e senza le
‘fonderie’ asiatiche, niente
tecnologie avanzate: un vero e proprio
disastro dell’outsoucirng. Senza dimenticare il vecchio – e assurdo – divieto imposto da
Donald Trump alla
Cina nazionalista e alla
Tmsc in particolare, a vendere
microchip alla
Huawei per motivi di pura
concorrenza sleale. Insomma, quando si tratta di
sviluppo d’avanguardia ci si mettono tutti, ma proprio tutti, a
generare problemi. Come se quelli già esistenti tra
inquinamento, riscaldamento globale e
pandemie varie non bastassero. Siamo cioè di fronte a un classico esempio di
‘globalizzazione alla cieca’. Soprattutto, da parte del
mondo occidentale, che ha da tempo abdicato alla lavorazione delle materie prime per delegarla ai
Paesi asiatici, generando
alti tassi di disoccupazione interna e un
raddoppio dei
prezzi. Neanche i
capitalisti sanno fare, questi qui. Ed ecco per quali motivi, nel momento in cui esplode una pandemia,
Usa e
Unione europea si ritrovano
senza mascherine chirurgiche: una delle tante
filiere produttive lasciate in mano agli
asiatici. Che lungimiranza, complimenti.