Michela DiamantiC’è la crisi dei ‘semiconduttori’. E pochissimi ne parlano. Manca poco che si scatena una terza guerra mondiale tra la Cina comunista e quella nazionalista e quasi nessuno analizza un problema che si trascina sin dai tempi di Chiang Kai Shek. Si tratta di quei microchip fondamentali per l’industria ‘tech’ più avanzata, che rischiano di mettere in crisi diversi settori, compreso quello automobilistico. Una crisi di approvvigionamento di materie prime che non vedrà la luce almeno fino alla fine del 2023. E 'colossi' come Renault, Skoda e Maserati hanno dovuto rinunciare al lancio sui mercati dei loro nuovi autoveicoli di punta. Un guaio serio, che rischia di rallentare l’uscita dalla crisi ‘post-pandemia’, certificato nei giorni scorsi persino da Standard and Poor’s, che ha tagliato le stime sulle vendite-auto del 2021 e del 2022. Un comparto tutto da riorganizzare, perché adesso ci sarà chi vorrà prodursi i microchip in 'casa propria', senza dover dipendere dal ‘quasi monopolio’ di poche aziende asiatiche, tra cui la Tsmc che ha sede a Taiwan. Sarebbe interessante notare come, dagli anni ’70 del secolo scorso in qua, l’antica Texas instruments americana abbia perso il mercato dei ‘chip’ (vengono chiamati così, in gergo tecnico, ndr), in favore di una ditta che ha sede nell’isola di Formosa e che oggi domina incontrastata comparti produttivi fondamentali, come quelli degli smartphone, dei personal computer, delle automobili e di tutta l’elettronica di consumo digitale, fino ad arrivare a quelle realtà che stanno sviluppando l’intelligenza artificiale e lo Iot (internet delle cose, ndr). I 'colossi' rimasti sul mercato sono pochissimi: oltre alla già citata Tsmc, che detiene il 'quasi monopolio' per la lavorazione del silicio e delle altre ‘terre rare’, gli altri due soggetti realmente concorrenti sono la sud coreana Samsung e le due cinesi Smic e Huawei. C’è da sottolineare che questi microchip sono considerati, oggi, il ‘nuovo petrolio’. E che tale situazione ha comportato un aumento di costi, prezzi e tassi di inflazione per tutte le economie interne del mondo più avanzato. Siamo cioè di fronte a un guaio paragonabile alla pandemia planetaria ancora in corso. Stando così le cose, Pechino ha stabilito di lavorarsi il silicio in casa propria. E per farlo ha incaricato una sua azienda, controllata dallo Stato ovviamente, che si chiama Oppo - quinto soggetto sul mercato dei ‘chip’ in termini globali - di investire sulla creazione di una catena di produzione interna, al fine di liberarsi dal dominio della taiwanese Tsmc, dalla quale escono quasi la metà dei semiconduttori utilizzati nel mondo e che ha, tra i suoi clienti, tutti i principali 'big' dell’elettronica, a cominciare dalla Apple. Quest’ultima, a sua volta, sta pensando ad allargare la propria ‘partecipazione azionaria’ internazionalizzandosi, nel tentativo di riprodurre alcune fasi di creazione industriale dei microprocessori. E anche Google e Amazon stanno studiando le proprie ricapitalizzazioni, finalizzate a raccogliere nuovi fondi da investire nel settore. Il capitalismo sta praticamente cambiando innanzi ai nostri occhi e nessuno, o quasi, ci sta facendo caso. I prezzi di ogni cosa stanno salendo e nessuno che si chieda: "Perché"? Per non parlare del rischio di un nuovo disastroso conflitto bellico tra la Cina popolare e quella di Taiwan (protetta dagli Usa, ndr), le quali non si stanno guardando in ‘cagnesco’ per questioni ideologico-politiche, bensì per motivazioni di avidità generate dallo ‘stop forzato’ dell’intero sistema globalizzato, intervenuto a causa della pandemia. Con le aziende di mezzo mondo ferme, infatti, si era bloccato anche l’approvvigionamento di materie prime fondamentali, come il già citato silicio, ma anche la bauxite e altri minerali che, in genere, il capitalismo globale sottrae ai Paesi poveri, come quelli africani (ma non solo…). In pratica, la ripartenza economica ha di fatto trovato ‘scoperti’ molti colossi, che al momento dell’inchiodata del 2020, denominata ‘chip crunch’, erano rimasti con poche scorte di microchip utilizzabili, tagliando di fatto la produzione di tutto ciò che, durante il lockdown, sembrava inutile. In buona sostanza, l’errore è stato di scarsa lungimiranza, poiché ha costretto a comprare in fretta e furia tutti i semiconduttori rimasti sul mercato, innalzando la curva di domanda. La ‘ripartenza’, inoltre, ha causato l’impennata anche della domanda di materie prime come il silicio, la grafite, il litio, il nichel e altri ‘semimetalli’ fondamentali per la produzione dei circuiti integrati, danneggiando l'intera filiera. Ma a prescindere dalla scarsa intelligenza dimostrata del sistema di mercato, il quale non ha saputo prevedere che, durante il lockdown del 2020 bisognasse diversificare la produzione, poiché l’intera popolazione mondiale, anche solo per lavorare a distanza, avrebbe avuto bisogno, come minimo, di un personal computer efficiente, siamo di fronte a una reazione a catena devastante. A cominciare dal settore dell’estrazione delle ‘terre rare’ (i metalli necessari alla lavorazione dei 'chip', ndr), fino alle aziende che lavorano ‘conto terzi’, ovvero senza fabbriche, poiché si limitano alla progettazione e all’assemblaggio dei ‘prodotti finiti’ per le industrie occidentali. Persino la californiana Intel si ritrova nei ‘casini’, poiché non in grado di lavorare le materie prime necessarie alla produzione interna dei microchip. In pratica, senza le risorse minerarie, provenienti da Africa e America Latina e senza le ‘fonderie’ asiatiche, niente tecnologie avanzate: un vero e proprio disastro dell’outsoucirng. Senza dimenticare il vecchio – e assurdo – divieto imposto da Donald Trump alla Cina nazionalista e alla Tmsc in particolare, a vendere microchip alla Huawei per motivi di pura concorrenza sleale. Insomma, quando si tratta di sviluppo d’avanguardia ci si mettono tutti, ma proprio tutti, a generare problemi. Come se quelli già esistenti tra inquinamento, riscaldamento globale e pandemie varie non bastassero. Siamo cioè di fronte a un classico esempio di ‘globalizzazione alla cieca’. Soprattutto, da parte del mondo occidentale, che ha da tempo abdicato alla lavorazione delle materie prime per delegarla ai Paesi asiatici, generando alti tassi di disoccupazione interna e un raddoppio dei prezzi. Neanche i capitalisti sanno fare, questi qui. Ed ecco per quali motivi, nel momento in cui esplode una pandemia, Usa e Unione europea si ritrovano senza mascherine chirurgiche: una delle tante filiere produttive lasciate in mano agli asiatici. Che lungimiranza, complimenti.





Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio