Maria Elena GottarelliPer Georges Rabbath, pittore libanese 49enne vissuto fra Beirut, Parigi e l’Italia, l’arte è un modo per dire: "No". Un no all'ingiustizia (quella personale e quella universale), ma soprattutto all’ideologia. “L’ideologia si decostruisce nell’arte”, afferma, infatti, alludendo a uno dei suoi filosofi di riferimento, Jaques Derrida. Specializzato in ritrattistica, Georges Rabbath rifiuta di definirsi un artista: “Quando mi chiedono se lo sono, io rispondo che non lo so. Del resto, per me l’arte si muove sempre su un terreno minato, fatto di incertezza, di dubbio. L’arte esige domande, non risposte”. Seduto in un bar di una delle più suggestive terrazze del Gianicolo, a Roma, l'artista estrae alcuni fogli A4 dalla cartella da lavoro che porta sempre con sé. Le sue opere sono semplici: alcune realizzate solo con una penna, altre straripanti di colori. Pur nella loro diversità, hanno tutte un aspetto comune: una carica umana primordiale. Volti: volti di migranti, di uomini, di donne, di passanti, di sconosciuti. Per quest’uomo dalla barba argentata e il corpo particolarmente asciutto (“io con la mia arte ci mangio, per forza sono magro...”, dice scherzando…), arte e attivismo vanno di pari passo. Di qui, il suo ultimo progetto: realizzare trentamila ritratti in un anno e devolvere parte del ricavato a uno scopo umanitario. Come un moderno Don Chisciotte, Rabbath combatte i ‘mulini’ che agitano il vento di questo mondo: la necessaria e inaccettabile ingiustizia che governa le cose. Ingiustizia personale e ingiustizia universale: quella di essere nato nella parte sbagliata del mondo, vale a dire a Beirut negli anni ’70 del secolo scorso; di avere visto la propria casa bruciare sotto una bomba; di avere subito, ancora bambino, una guerra che per lui resta incomprensibile, oggi come allora. Ma anche quella delle migliaia di persone che soffrono, nel suo Paese e nel mondo, senza un perché.

Georges Rabbath, innanzitutto ci parli del suo progetto, trentamila ritratti in un anno, che significa più di ottanta dipinti al giorno: perché imbarcarsi in un’impresa che in molti non esiterebbero a definire ‘folle’?
“Per prima cosa, io ho sempre dipinto tantissimo. Posso arrivare fino a cento ritratti al giorno. Sono molto veloce e amo quello che faccio. Per quanto riguarda il mio attivismo, credo che l’arte sia, in qualche modo, una risposta all’ingiustizia, che purtroppo è una componente ineliminabile del mondo. Fin da bambini, ci vengono inculcate una serie di idee, di dogmi. Credenze di natura religiosa, politica e culturale che ci portano ad accettare il fatto che il mondo va così, che l’ingiustizia esisterà sempre e che non ci si può far nulla. Attraverso l’arte, io dico: ‘No, mi dispiace, non ci sto’. Accetto il principio di realtà che, per vivere, devo mangiare, ma rifiuto la vostra narrazione. La vita può essere anche altro”.

In che modo l’arte può combattere l’ingiustizia?

“Distruggendo l’ideologia. L’arte crea un mondo parallelo, nel quale le regole che governano la nostra realtà non hanno più valore. Di ciò, l’artista non ha alcun merito, perché la decostruzione, come diceva Derrida, non è un atto del soggetto, ma un avvenimento”.

Quando l’arte è autentica?
“A mio parere quando è vissuta, quando è performativa. E quindi, come dicevo prima, quando vive nell’incertezza. Io non credo che esista una definizione universale di ‘arte’, né tantomeno che qualcuno di esterno a essa possa definirla. Prima dell’avvento dell’arte contemporanea, una piccola élite di critici stabiliva chi era un artista e chi no, quale arte era vera e quale no. Questo modo di vedere le cose è stato messo in discussione dall’arte concettuale, che stabilisce che nessuno può più ergersi a giudice. Come sostiene Joseph Beuys: siamo tutti potenziali artisti. Nella realtà dei fatti, attualmente le cose non stanno così: la critica esiste ancora e molte aziende se ne servono per mandare avanti  il loro cavallo di punta. Ma questo non ha nulla a che vedere con la dimensione performativa dell’arte di cui parlavo prima. E’ una faccenda di soldi, di fama, di notorietà”.

Ci parli del suo modo di dipingere: perché proprio i ritratti?
“Quando vivevo a Parigi, negli anni ‘90, studiavo neuroscienze alla Sorbonne. Sono stati i miei studi ad avvicinarmi all’arte, come forma di apprendimento a doppio senso. Quando dipingo, scopro qualcosa che prima non sapevo. Anche qui torno a citare Derrida, che per primo ha introdotto il concetto di ‘originarietà’ del segno. Prima di lui, si pensava che l’artista avesse in mente qualcosa (un volto, un paesaggio, una natura morta) e che solo successivamente lo riportasse sulla tela. Con Derrida, la sequenza è invertita e la scoperta avviene grazie all’atto artistico. Dipingendo, l’artista scopre qualcosa che prima non sapeva, del mondo e di se stesso. Contemporaneamente, il ritratto è una forma di autocoscienza per lo spettatore, che grazie all’artista vede se stesso in un modo nuovo. Così facendo, coinvolgo lo spettatore e lo rendo partecipe dall’atto artistico”.

Qual è il fine dell’arte, secondo lei?

“A questa domanda non si può dare una risposta univoca: non ci sono slogan, ci sono domande. Domande importanti, di natura umana, politica, religiosa. Cos’è l’alterità? Cos’è la giustizia? Cosa significa essere umano? Nell’arte, la risposta deve sempre essere agita, vissuta. Le faccio un esempio: vivendo in Italia, mi sono reso conto di essere qui per un motivo preciso. Mi sono innamorato di questo Paese e vorrei raccontare la sua Storia in modo originale, guardando solo alle sue opere d’arte, senza tener conto della Storia passata. Un’Italia che non è mai esistita, ma che io ho scoperto immergendomi nei suoi dipinti e nelle sue opere prima di conoscere questo o quel politico, questo o quello scrittore. Come in ‘Invisible cities’ di Calvino”.

Dopo tanti anni vissuti qui da noi, si sente italiano?

“Non mi sento italiano, io sono libanese. Ma mi sento europeo. Non dobbiamo dimenticarci che siamo tutti europei. Nella mitologia, Europa era una principessa fenicia che venne rapita da Zeus. Il suo nome vuol dire letteralmente ‘all’ovest di’. Ora, le parole ‘Europa’ e ‘Arabo’ hanno la stessa radice semitica: ‘h-r-b’. Infatti, gli arabi erano chiamati così perché si trovavano all’ovest della Mesopotamia e dei Sumeri. L’Europa era invece all’ovest della Grecia. Glielo dimostro così, con l’etimologia: siamo tutti europei”.





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