Hammamet di
Gianni Amelio è un film che rimane
in mezzo al guado. Così come a
mezza strada si ritrova
l’Italia intera nei confronti della
verità storica. La pellicola, riproposta su
Rai 3 la sera del
22 ottobre scorso, fatta salva l’interpretazione di
Pierfrancesco Favino è un’opera di
medio livello, con
momenti toccanti e un
‘doppio finale’ apprezzabile, che tuttavia ha il torto di abbandonare sullo sfondo la
questione politica della vicenda di
Bettino Craxi, lasciando le cose così come stanno. Un film che, debbo confessarlo,
non ho amato e
non amo. C’è l’intuizione di un uomo che viene lasciato morire durante il finale di uno
spettacolo teatrale assai mediocre. Una scena che, oltre a individuare la mia personale tipologia di
incubi ricorrenti, rappresenta assai bene la realtà di un Paese capace di ridurre in
condizioni disperate la vita di uomo che ha lavorato fino all'ultimo dei suoi giorni. Un’indicazione di
arretratezza mentale e di
volgarità presentata solamente alla fine. Come per dire:
“Abbiamo capito. Anche noi siamo umanamente dispiaciuti, ma di più, al momento, non possiamo dire, né ammettere”. E’ sempre la stessa storia, in fondo: si
riabilita, in parte, un personaggio o un leader del passato per
recuperarne la lezione. Ovvero, la lucida visione di un
orizzonte laico e
liberalsocialista per
l’Europa del XXI secolo e per l’intero
mondo occidentale. E’ sempre lo stesso
meccanismo, ipocrita e falso: quando qualcuno possiede una
visione dev’essere
eliminato, perché non può e non deve
disturbare. Un orrore che vale tanto a
destra, quanto a
sinistra, sin dai tempi di
Antonio Gramsci, Giovanni Gentile, Pier Paolo Pasolini, Aldo Moro e moltissimi altri. Non per
Silvio Berlusconi, come erroneamente si crede, poiché anch’egli si adeguò, anche se in una
‘chiave difensiva’, alla lugubre cerimonia di
calpestamento antropico della
prima Repubblica. Un contenuto che l’opera cita con una semplice
telefonata di passaggio. Ovvero, non più di un
cenno. Per
non osare, per
non disturbare la digestione di chi è economicamente influente e potrebbe
non farti più fare un film, in questa nostra
democrazia ‘da operetta’, dove non avanza chi è più valido, ma chi nuoce di meno, in quanto
privo di storia e della
Storia. Se anche
Gesù Cristo in persona tornasse sulla Terra, Egli verrebbe
crocifisso una seconda volta, poiché nulla di
antropologicamente evolutivo è tenuta ad apprendere una società abitata da un’umanità che dovrebbe smetterla di
temere i demoni, poiché ne risulta già
invasa nella sua stessa struttura sociale. Una
società marcia sin nelle fondamenta: ecco quello che siamo. Si
allude senza
connotare, secondo il
comunismo cattolico di chi
giudica senza aprir bocca, che ti uccide senza neanche affrontarti, che ti batte una mano sulla spalla come segnale di
pugnalata alla schiena già vibrata da tempo. Una critica da
ipercritici: conosciamo sin d’ora il giudizio di chi c’è e deve continuare a esserci. Per forza, anche se ci rappresenta
sempre più vergognosamente. Un film che qualcosa
suggerisce, ma solo per chi può
intendere, solamente per chi può capire. E questo
‘qualcosa’ non viene mai detto apertamente, depositando la tipica
mezza verità di chi non ha il coraggio di ammettere le
dissociazioni dei tanti, di chi si trasforma in un
architetto perché è
crollato un ponte, o nel
commissario tecnico della nazionale di calcio quando la nostra rappresentativa vince, ma non convince. Cosa parliamo a fare di
libertà se poi un leader qualsiasi deve per forza
inseguire il popolo, anziché convincerlo della bontà del suo
progetto politico o del suo stesso
pensiero? Cosa parliamo a fare di
leadership, di
culti della personalità, di
papati ierocratici, di
santi e
grandi mistici che hanno compreso ogni cosa? A cosa servono tutte queste
chiacchiere disinformate e
sorde, che lasciano imperare una logica
assembleare e
‘rousseauiana’, in cui bisogna
far contenti tutti e non
scontentare mai nessuno? E quando
non servi più, ti
gettano via. Un’idea grigia di
società tendente alla
mediocrità, che non comprende minimamente nulla di ciò che dovrebbe essere considerato
ideale, eccezionale, etico e, persino,
morale. A cosa serve tutto questo?
Non serve a nulla: questa è la verità. Fino al punto di preferire la
clandestinità o il
qualunquismo, in ultima analisi. Quel
qualunquismo inciso nel
Dna di un popolo che ritrova se stesso solamente quando tutto è ormai
perduto, incapace di riconoscere, in ogni processo storico, politico e culturale, il proprio
punto di non ritorno. Una vita da
‘autotrasportati’, come quando ci si risveglia in piena
pianura Padana e ci si rende conto di aver oltrepassato il
valico appenninico ormai da
ore. Ecco perché mente chi afferma di professare il
‘carpe diem’, il
‘qui e ora’, il
gusto del momento, il vivere come se
non esistesse un domani: perché si tratta di
attualismo ‘meccanico’, incapace di produrre
contenuti reali, autentici, integrali. Infine, un giudizio su
Gianni Amelio: un regista che indubbiamente possiede una propria
‘mano’ artistica rispetto a una selva di gente che si limita a
‘registrare’, più che a
dirigere, una scena, ma che ci appare, tuttavia, in piena
fase calante. Perché siamo ormai giunti alla
fine della Storia e della
politica. E anche alla
fine del cinema italiano. Sorrentino a parte.