A
20 anni esatti
dall’attentato alle
Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, bisogna innanzitutto sottolineare che tutto quel che è accaduto in seguito ha modificato in maniera radicale la funzione delle
‘missioni’ militari nel mondo. Il recente ritiro, tumultuoso e disordinato,
dall’Afghanistan e l’insuccesso della missione in
Irak hanno dimostrato come
l’opzione bellica sia non soltanto difficilmente
sostenibile finanziariamente, ma anche
inopportuna politicamente, poiché finisce con l’innescare una serie di
reazioni a catena difficilmente gestibili. In tal senso, si può persino affermare che le cosiddette
‘Primavere arabe’ del
2011 e le crisi in
Libia e
Siria siano anch’esse conseguenza di quanto accaduto a
New York in quella
‘maledetta’ giornata di
20 anni fa e di ciò che venne successivamente stabilito a
Washington come reazione tanto
comprensibile, quanto
scomposta. Oggi, tutto questo sta gettando
discredito - anche eccessivo a dire il vero – circa la credibilità del modello di vità e di civiltà del
mondo occidentale nel suo complesso, delegittimando il ruolo degli
Stati Uniti d’America nel mondo. Una
Unione europea concepita in termini strettamente
macroeconomici e freddamente
‘monetaristi’ non può ancora incidere sugli
scenari internazionali, nemmeno per andare a colmare le
lacune lasciate da altri. In secondo luogo, in termini di
politica estera, la
Ue palesa una
debolezza congenita che la pone
in mezzo a un guado, indebolendola anche sul
versante interno: ovvero,
quello del processo di costruzione di un'effettiva
unificazione politica capace di svolgere un ruolo di equilibrio tra le varie parti in conflitto in una qualsiasi area o regione del pianeta. Gli
Usa hanno dimostrato, in questi ultimi
20 anni, tutti i loro
limiti politico-culturali. La strategia di
‘esportazione della democrazia’, per esempio, si è rivelata un
cupo insuccesso: un’occupazione
‘semicoloniale’ o
‘tardoimperialista’ dei Paesi invasi, che dopo aver superato la fase del conflitto militare, ha sempre delegato a
regimi ‘fantoccio’, spesso corrotti e incapaci, il compito di instaurare
nuove forme di governo più
aperte o quanto meno
‘simildemocratiche’. Insomma, dietro la formulazione
‘general generica’ di un
modello democratico da insediare, o da
‘trapiantare’ se si vuole, negli altri Paesi abbiamo tutti incontrato un
‘vuoto politico’ pressoché totale, in termini di
progettualità e di contenuti
empiricamente realizzabili. E ciò dimostra come l’instaurazione di
forme di governo ‘esogene’ rispetto a territori, culture e tradizioni locali di un territorio qualsiasi, non possa fondarsi sugli
interventi militari. Quanto accaduto in
Europa dopo la fine della
II guerra mondiale fu molto
diverso: superata la fase dei
nazionalismi e del
delirio ‘hitleriano’, la democrazia potè fondarsi sulla base di un terreno politico, sociologico e culturale che aveva molti aspetti in comune con il
'sogno americano': fu una
risposta liberaldemocratica ‘compatibile’. Al contrario, in Paesi lontani - non solo geograficamente - come
l'Afghanistan, l’Iraq e persino lo stesso
Vietnam della seconda metà del secolo scorso, lo
schema ‘rooseveltiano’ si è rilevato
inadatto, se non imposto attraverso
forme instaurative forzate e
innaturali. La democrazia di un Paese nasce anche per
‘atti instaurativi interni’ e non solamente per
fatti esogeni, spesso totalmente incompatibili con ogni
tradizione locale, foss’anche semplicemente
‘confuciana’ o
‘buddhista’, dunque
filosoficamente ‘sfuggente’ rispetto al
militarismo bellicista della tecnologie più avanzate quale quella dei
‘droni’ o della
‘guerra a distanza’. In buona sostanza, oggi gli
Stati Uniti stanno rischiando di cadere in una
‘trappola’ della Storia non di poco conto, dato che tutto quel che è accaduto negli ultimi
20 anni, anche sul fronte delle varie crisi finanziarie succedutesi ciclicamente, hanno fatto perdere agli
Usa anche la loro
leadership globale innanzi a un
‘colosso’ come quello
cinese, che nonostante la recente pandemia da
Covid 19 ha visto un incremento complessivo del proprio
prodotto interno lordo quasi del
70% superiore a quello americano. In pratica, è l’intera fase storica
dell’America ‘gendarme’ del mondo quella che si chiude. E ciò potrebbe far nascere ulteriori
crisi di assestamento, che non si saprà neanche bene chi potrà affrontare con la necessaria
forza contrattuale, seppur temperata dall’atteggiamento
rassicurante che solo una
potenza di livello globale può esercitare agli occhi degli interlocutori.
L’Unione europea, se riuscisse a rivedere alcuni suoi
meccanismi tecnici e
decisionali, potrebbe svolgere un ruolo di
‘potenza emergente’ – o ‘riemergente’… - in grado di equilibrare la
tumultuosa avanzata cinese? La domanda è alquanto
impegnativa. Anche perché dovrebbe farlo fornendo
risposte sociali ed
economiche al passo coi
tempi, in grado di dimostrare come il
modello democratico occidentale sia capace di ridurre le proprie
disuguaglianze interne. Solo rispondendo a tali due requisiti – uno
sviluppo sostenibile socialmente equilibrato e
capacità decisionali maggiormente incisive, poiché
‘unitarie’ – la
Ue potrà porsi in maniera credibile come
nuova potenza del panorama geopolitico internazionale. E sarebbe una vera e propria
‘resurrezione’, quella
dell’Europa: un ritorno al centro del quadrante della Storia. Un
‘miracolo’ il cui merito, non dimentichiamolo, sarebbe comunque ascrivibile al ruolo svolto, dal
1945 sino a oggi, proprio dagli
Stati Uniti d’America. Un merito che, con spirito di
amicizia e
leale gratitudine, non è giusto
dimenticare. Anche di fronte agli
errori compiuti, dovuti senz’altro agli
immani nemici che questo grande
‘Paese-fratello’ si è trovato a dover affrontare. Spesso
da solo.