Il ritorno dei
Talebani al potere in
Afghanistan è la prova di come questo Paese asiatico sia di difficile gestione politica per chiunque. In passato, furono in grado di impegnare la
potenza sovietica sino al punto da determinare
l’implosione economica interna
dell’Urss. Oggi, siamo di fronte al
disastro finale della
strategia americana in tutta l’area e a quell’idea di
‘esportazione’ della democrazia che, senza ancoraggi culturali interni, certamente non può attecchire
di forza o su basi totalmente
militari. Chi ha avuto storicamente a che fare con il
popolo afghano, alla fine ci ha sempre rimesso le
‘penne’. Innanzitutto, anche gli
americani lasciano, oggi, libero il campo e abbandonano
Kabul soprattutto per motivazioni
economico-finaziarie: gli
Usa non hanno più
liquidità a disposizione per proseguire quelle
missioni internazionali che
Washington aveva teorizzato dopo
l’11 settembre 2001. Sarebbe meglio tentare, questa volta, un
approccio diverso verso le
popolazioni locali e i
Talebani stessi, al fine di limitare quella
deriva teocratica che, al momento, sembra l’unica in grado di garantire qualche certezza o punto fermo alla popolazione, per lo meno in termini
identitari o di
principio. Probabilmente, il vero
errore strategico degli
americani fu
l’invasione dell’Iraq del
2003: basata su
premesse erronee, l’invasione della
Mesopotamia ha condotto gli
Stati Uniti a mettere
troppa ‘carne al fuoco’. E il cattivo esito a lungo termine anche della
missione irachena ha finito col convincere i
Talebani ad
attendere il momento opportuno per riorganizzare la propria
controffensiva. Una strategia tutto sommato
corretta: si è concesso ‘spazio’ in cambio di
‘tempo’ per studiare con calma e
‘a tavolino’ la propria
rivincita. Bastava
attendere, insomma: una
strategia paziente, che oggi raccoglie i frutti di quanto ha seminato. Le
missioni rancorose e
vendicative del mondo occidentale non sono servite a nulla. E il
fondamentalismo islamico non solo non è stato
debellato, ma addirittura raccoglie una
clamorosa vittoria. Dopo
l’11 settembre 2001, gli
Usa hanno teorizzato un
‘unilateralismo messianico’. L’insuccesso di oggi dimostra solamente quella
miopìa semplicista e
manichea che continua a generare
danni ovunque, non solo in
politica estera. Inoltre, la scarsa capacità di ricostruire
un’economia interna ha reso il lungo
ventennio di
occupazione americana senza
capo né
coda. Tutto questo dimostra che il presidente russo,
Vladimir Putin, possiede una visione geopolitica assolutamente
limpida dell’intera
macro-regione, perché può vantare l'efficacia della sua
influenza e il
fallimento delle
politiche occidentali: dove c’è lui
si vince sempre; dove intervengono gli
altri, gli esiti risultano sempre assai
discutibili. Persino
l’Iran, oggi, può tirare un
respiro di sollievo per la scomparsa del
nemico statunitense dall’intero
quadrante regionale, mentre il
Pakistan, che ambiguamente ha sempre fatto il
doppio-gioco con tutti, proteggendo i
Talebani, ma pretendendo
soldi e
protezione dagli
americani, corre il rischio di vedere alcune
istanze secessioniste interne, come quelle del
Pashtunistan, esplodere all’improvviso, conducendolo sull’orlo della
disgregazione. La
Cina, infine, potrà approfittare del
vuoto americano per penetrare commercialmente nell’area, come peraltro stava già facendo da tempo. E per quanto riguarda il futuro interno
dell’Afghanistan, i
Talebani, attualmente uniti dal
‘wahhabismo’ e
dall’odio verso
l’occidente, nell’orgia della vittoria potrebbero veder riemergere le
antiche divisioni etniche e
religiose, soprattutto quando si tratterà di riorganizzare decentemente la vita del Paese. Per quanto apparentemente allineati su una linea di condotta più
'moderata' rispetto al passato, qualche
brutalità è già tornata alla ribalta. E la
vita sociale di
donne e
giovani laici sembra destinata a ritornare in condizioni di
controllo ossessivo, se non di vera e propria
persecuzione. Infine, i
gruppi Talebani attuali non sono quelli della metà degli
anni ’90 del secolo scorso: non hanno
alcuna esperienza di governo e la loro
economia si regge sul
traffico della droga o sui
finanziamenti stranieri per lo
sviluppo, già oggi
crollati provocando
disoccupazione interna e un ritorno
all’arretratezza. Tutto ciò impone una
riflessione anche sull’attuale decisione
americana di
tornare a casa in fretta e furia, poiché dettata da evidenti problemi di
liquidità finanziaria derivanti da
un’epidemia non ancora del tutto sotto controllo, oltre che dall’incapacità di riuscire a ricreare nuove
fondamenta logistiche, strutturali ed
economiche nei Paesi che si è voluto, a tutti i costi,
invadere negli ultimi decenni. La
fuga americana da
Kabul di questi giorni è solamente l’ultimo atto di un
fallimento complessivo, dall’inizio alla fine, di una
teoria bellicista e
guerrafondaia basata su premesse
culturalmente erronee e
ipotesi poco fondate. Un
fallimento che potrebbe significare, per
l’Afghanistan e i
Talebani stessi, una nuova fase di
caos interno e di
violenza arbitraria, totalmente
fuori controllo.