Michela DiamantiLa principale attività che sembra coinvolgere prevalentemente le nuove generazioni è quella di mantenersi costantemente connesse e immerse in una dimensione virtuale, dove a volte la propria identità è simbolizzata da un ‘alias’. Nel mondo virtuale, in cui sempre più spesso i ragazzi trascorrono gran parte del tempo, tra un ‘vortice’ di ‘tag’ e una ‘marea’ di ‘post’, essi ‘navigano’ alla ricerca di conferme alla propria autostima. Un terreno ‘fertile’ per le più stravaganti creazioni digitali, in cui si misurano i più giovani con frequenti ‘passaggi’ anche dalle parti dei più ‘maturi’ e dove spuntano (quasi come funghi) ‘blogger’ e ‘influencer’ capaci di generare incassi da fare invidia a un oligarca russo. Una di queste creazioni è quella delle ‘social challenge’: vere e proprie sfide, in cui i protagonisti compiono delle prove, filmando ogni istante per poi postare immagini e video dell’impresa sulla piattaforma social prescelta, misurando il proprio successo in numero di ‘like’ e di ‘followers’. Un fenomeno che è stato analizzato dall’Istituto di Fisiologia clinica del Cnr di Pisa, che da oltre vent’anni osserva le abitudini e gli stili di vita degli adolescenti pubblicando, ogni anno, la ricerca nazionale Espad, di cui recentemente uscita l’ultima edizione (Espad #iorestoacasa 2020). Dalle indagini effettuate su ragazzi tra i 15 e i 19 anni di età, si sono potuti evidenziare i comportamenti, soprattutto quelli più a rischio, tenuti dai giovani nel corso del 2020. In particolare, quelli del primo ‘lockdown’, che ha privato gli adolescenti delle naturali forme di aggregazione e di svago, esponendoli a un maggior utilizzo della rete. Fra le situazioni che mettono maggiormente a repentaglio gli individui in oggetto (accanto all’abuso di internet, al gioco non solo d’azzardo, al cyberbullismo e al consumo di sostanze psicotrope) spiccano proprio le ‘social challenge’, non solo e tanto per la loro diffusione, quanto per il loro potenziale dirompente per chi vive una fase della propria vita naturalmente e tradizionalmente portata alla trasgressione. Se, infatti, la maggior parte delle sfide rimane innocua, non mancano casi in cui il ‘copione’ da seguire conduce a forme di autolesionismo, come non mancano casi in cui chi viene reclutato in una ‘challenge’ cade vittima di autentici psicopatici seriali, pronti a indurre la vittima in un ‘tunnel’ di dipendenza e di soggezione psicologica, con esiti anche letali come nel caso della ‘Blue Whale Challenge’ (la macabra sfida, ndr) in cui i partecipanti venivano indotti a superare una serie di folli prove nell’arco di cinquanta giorni, fino a compiere gesti estremi. Le ‘challenge’ sono risultate conosciute a quasi 400 mila adolescenti. Secondo lo studio, dal 18% delle ragazze e il 13% dei ragazzi. Il 3% ha ricevuto un invito a prendervi parte e, tra questi, quasi un quinto ha accettato la proposta. La diffusione di queste folli sfide è risultata maggiore tra coloro che presentavano un profilo nell’utilizzo di internet più ‘a rischio’, ovvero tale da essere potenzialmente in grado di determinare una dipendenza. Davide Brennato, professore di Sociologia dei media digitali all’università di Catania, in un articolo riportato su ‘Agenda digitale’ (www.agendadigitale.eu) ha spiegato il potenziale ‘seduttivo’ delle ‘challenge’, che possono esercitare sulla psicologia di un adolescente, richiamando alla memoria la ‘Chiken Run’ resa nota nel celebre film del 1955 intitolato ‘Gioventù bruciata’, in cui il protagonista (James Dean) gareggia a bordo di un’auto in corsa lanciata verso una scarpata, scommettendo su chi tra gli sfidanti abbandonerà il veicolo in corsa per ultimo, prima di precipitare nel vuoto. Un esempio cinematografico che fa da eco all’ebbrezza provata nel compiere ‘azioni sconsiderate’ per il ‘brivido’ della riuscita della sfida. Con i social network, invece, le sfide si arricchiscono di connotati più definiti rispetto al passato. La componente ludica, o di intrattenimento, si accompagna al bisogno di definire un’identità, in un momento dell’esistenza in cui un giovane cerca di plasmare la propria. Una fase in cui il senso di appartenenza al gruppo gioca un ruolo decisivo nello stimolare l’emulazione di comportamenti diretti a consolidare la propria inclusione nel gruppo o, al contrario, in caso di insuccesso o diserzione, alla ‘bollatura’ quali elementi privi di attrattive. La ‘challenge’ si presenta come una moda, un fatto di costume al pari di uno ‘stile’ di tendenza, che omologa l’intero gruppo. Infine, la persistenza della ‘challenge’, che tramite la ripresa video permette l’ingresso nella vasta ‘community’ di coloro che vi hanno partecipato, con l’ambizione che la propria ‘performance’ diventi virale. Ma il fenomeno e il rischio connesso alle ‘social challenge’ non riguarda solo la popolazione di adolescenti, forse più inclini a indulgere deliberatamente in comportamenti trasgressivi di quanto lo possano essere coloro che sono nel pieno o sul finire della loro infanzia. Per i bambini, ancora privi di quelle strutture che potrebbero metterli al riparo, almeno parzialmente, da pericolose seduzioni, è molto più facile cadere in una spirale di autolesionismo e restare intrappolati nella rete di veri e propri criminali, incapaci di provare rimorso ed empatia, neanche a livello embrionale, per le loro vittime. Sono anche e soprattutto questi i casi che destano maggiore allarme in un’epoca 'liquida' come quella attuale, in cui strumenti di comunicazione come pc, tablet e, soprattutto, smartphone, vengono lasciati a disposizione anche dei giovanissimi, a volte senza la supervisione di un adulto. Come nei tragici casi delle giovani vittime di Palermo (10 anni), Napoli (11 anni), Milano (14 anni) e Tivoli (14 anni), ricordando che sono solo alcuni di coloro che, tra il 2018 e l’inizio dell’anno in corso, sono caduti vittime delle più pericolose ‘social challenge’ e dei loro disturbati registi. Casi che hanno spinto l’Autorità garante per la protezione dei dati personali a muovere diverse contestazioni già nel corso del 2020 contro una delle piattaforme social più diffuse (Tik Tok), con l’esito del recente provvedimento che ha imposto alla piattaforma un deciso cambiamento di rotta sul fronte della tutela dei minori e dell’adozione di misure di verifica effettiva dell’età degli utenti. Mentre si alza il livello di allerta delle istituzioni, non va trascurato il ruolo fondamentale di controllo da parte degli adulti: “Consentire un accesso libero alla rete”, afferma Stefano Vicari, responsabile del reparto di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza presso l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, “non filtrato dal controllo dei genitori, prima dei 12 anni espone i piccoli utenti a rischi molto gravi”, sottolineando come, in tenera età “i ragazzi non sanno valutare le conseguenze delle proprie azioni” e non possiedano i concetti di “irreversibilità e di morte”. Quindi, sarebbe auspicabile (e non solo per i ragazzi), ‘immergersi’ nella rete solo se muniti di un buon ‘salvagente’, perché oltre a proteggere dal fenomeno dilagante delle macabre sfide, ciò potrebbe rappresentare l’unico strumento ‘personale’ in grado di scongiurare il pericolo più temuto: quello di finire alla deriva.





Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio