In questi strani tempi di pandemia, più volte ci siamo sentiti come il cavaliere de
‘Il settimo sigillo’: posti di fronte all’angoscia della morte. O costretti a giocare contro di lei una
partita a scacchi molto difficile, a tratti disperata, con numerosi
‘momenti-soglia’ anche privati, intimi, personali. Una sfida che si è presentata esattamente nello stile
‘filmico’ di
Ernst Ingmar Bergman, non a caso considerato dalla critica il più prestigioso regista mondiale degli
anni ’50 del secolo scorso, anche se aveva esordito con il suo primo film,
‘Crisi’, nel
1945. Una pellicola, quest’ultima, che già allora seppe rappresentare un
'quadro' perfetto della
gioventù disorientata dalla guerra, la quale reagiva con disordinata violenza ai problemi della vita quotidiana. Sceneggiatore, drammaturgo, scrittore e produttore cinematografico,
Bergman si è distinto per la sua capacita di rendere libera l’espressione dei sentimenti delle varie personalità del genere umano, con tutte le contraddizioni che lo identificano. Critico e scrittore, oltre che regista, è stato un
osservatore preciso dell’umanità che lo circondava. La crisi dei sentimenti e l’incomunicabilità diventano gli effetti delle contraddizioni della
società industriale avanzata, dando però un respiro più ampio alle varie situazioni, definendo con maggior consapevolezza politica i termini delle
crisi individuali, anche se la sua vocazione per i
temi sociali non si esaurisce nell’esaminare i rapporti tra la
lotta di classe e la
crisi della coppia, ma comprende una serie di questioni che, oltrepassando i limiti delle
contraddizioni sociali, diventano comuni con le altre società industrialmente sviluppate. E infatti, le migliori opere prodotte dalla
Svenska Film, specialmente quelli di
Gustaf Molander, portavano la firma, per la sceneggiatura, di
Ingmar Bergman, come per esempio
‘Swedenhielms’. Innanzitutto,
Bergman ha sempre avuto il coraggio di raccontare molte volte la sua
infanzia: il
padre, pastore protestante; i primi
dilemmi religiosi; le
suggestioni che operavano in lui gli
affreschi sulle pareti delle
chiese campestri. A questi si ispirò per l’ideazione del suo film più conosciuto,
‘Il settimo sigillo’, non tanto e non solo figurativamente, quanto per la particolare fantasia nella costruzione del film stesso. C’è da ricordare che a quella iconografia, popolare e suggestiva, decorativa e bizzarra, si era ispirato più direttamente un altro regista, che fu tra i maestri di
Bergman e di cui l’artista scandinavo fu, a volte, sceneggiatore:
Alf Sjöberg, per il suo
‘Strada di ferro’ del
1942, con
Rune Lindström, Eivor Landström, Anders Henrikson e
Holger Löwenadler. Quel film era tratto da un testo teatrale che ricordava una sacra rappresentazione a tratti un po’ profana. E
‘Il settimo sigillo’ lontanamente s’ispirava a quel film, così come il
‘Dies Irae’ di
Dreyer. Insomma,
‘Il settimo sigillo’ ebbe un successo strabiliante tra gli
intellettuali e la
società borghese italiana del dopoguerra. Così come lo ebbero
‘Il posto delle fragole’, molto apprezzato al
Festival di Berlino del
1958 e
‘Sorrisi di una notte d’estate’. A dimostrazione che
Bergman e
Sjöberg erano i
‘grandi’ del rinnovato
cinema svedese. Furono questi film quelli che ci presentarono una
Svezia protestante e
socialdemocratica, riformata e
riformista. E la sua cultura ci sembrò
libertaria, libertina, invidiabile e, finalmente,
avvicinabile. Proprio per tali motivi,
Ingmar Bergman è tutt’oggi considerato una delle personalità più eminenti della storia della cinematografia mondiale, poiché fu un
‘mediatore ideale’: egli seppe mediare anche tra gli
aspetti più estremi della
tradizione svedese e le esigenze della
comunicazione cinematografica, riuscendo ad avvicinarsi al suo nord senza tradire e senza svendere la propria tradizione, ma semplicemente vivificandola, spettacolarizzandola, con suprema disinvoltura e calorosa vitalità.
Bergman fu un
‘artista totale’, uno dei migliori registi sul lato
tecnico/visivo e, allo stesso tempo, uno
sceneggiatore paradigmatico, tra i più complessi e raffinati che siano mai esistiti. Il
terrore della morte, la
fede e la
crisi spirituale, i
traumi del passato e, in generale, il ricordo della
giovinezza perduta o della
magia della fanciullezza sono solo alcuni dei temi che è riuscito a trattare con
efficacia, se non con perfezione formale.
Bergman sedusse i giovani che, nati e cresciuti
superficialmente cattolici e divenuti in seguito
atei e poi
marxisti, si sbalordivano della
disinvoltura della quotidianità, contemporaneamente alla profondità con cui i protagonisti de
‘Il posto delle fragole’ parlavano di
teologia e di
laicismo. Oppure, per il modo in cui, ne
‘Il settimo sigillo’, tante visioni si incrociano, tanti modi di intendere la vita e il bisogno di spiegarsela, di darle un senso, di investigare sugli enti ultimi e persino su Dio.
Bergman è riuscito a trasmettere
l’angoscia esistenziale, il
dolore, l’ipocondria, la
nevrastenia. Deriva da questa sua inconscia capacità, il grande apprezzamento che in tanti nutrirono e nutrono, ancora oggi, nei confronti delle sue opere cinematografiche. Un
autore ferace e
vorace, autocentrico, non sempre poeta, ma sempre prepotente, anche nei
silenzi, nelle
pause, nei
sofferti ritrarsi, nelle
attese. Il suo stile interpretativo e filosofico potremmo oggi paragonarlo a quello di certi film di
Robert Bresson, di
Luis Buñuel, di
Federico Fellini, di
Andrej Tarkovskij o di
Woody Allen. Ingmar Bergman, spentosi nella sua villa di
Fårö il
30 luglio 2007, è stato certamente un
autore personalissimo, che ha fatto scuola. Perché fu l’unico che riuscì a parlarci esplicitamente del
linguaggio di Dio. Un linguaggio da ascoltare attraverso il suo
silenzio.