Il fenomeno dello
spreco alimentare non va
‘incasellato’ come semplice critica ai comportamenti del
singolo consumatore. In realtà, il vero problema riguarda il
modello di sviluppo che abbiamo fin qui adottato nel mondo occidentale. Nel settore della
produzione agricola, infatti, ogni anno vengono
distrutte enormi quantità di
merci, dalle frutta ai cereali, dai legumi alle derrate alimentari, che basterebbero a
sfamare l’intero pianeta. Invece, il
sistema di mercato preferisce
‘scartare’ migliaia di tonnellate di prodotti, al fine di mantenere ridotta la
‘torta’ dei
guadagni finanziari – compresi quelli azionari – nel settore
dell’industria agroalimentare. Secondo le
leggi del mercato, infatti, la
vendita sottocosto o a
prezzi calmierati finisce col devastare i mercati interni del
Paesi poveri, che si vedono costretti a inseguire una
spirale deflattiva dei prezzi, fino a rinunciare alla
produzione interna per mancanza di guadagni. Pertanto, oltre a una certa
quota di merci destinate ad aiuti prestabiliti da precisi
accordi bilaterali tra gli
Stati, niente di quanto risulta
prodotto in eccesso viene inviato alle
popolazioni più povere e si preferisce
distruggere intere tonnellate di
derrate agricole, piuttosto che destinarle ad altri scopi. Un caso storico eclatante di tale paradosso fu quello del
caffè brasiliano, in cui per interi decenni tutta la
sovrapproduzione che non riusciva a trovare
sbocchi di mercato veniva scaricata da gigantesche navi-cisterna sul fondo
dell’oceano Atlantico. E la cosa accade ancora oggi con i
pomodori pugliesi o le
arance siciliane, inviate al
macero anziché collocarle da altre parti o utilizzarle in altro modo. Il fenomeno avviene per motivazioni varie,
persino di immagine: l’insalata che vediamo sui banconi dei nostri supermercati deve superare determinati esami di
natura ‘estetica’, che non corrispondono affatto a quei
criteri qualitativi e
nutrizionali che dovrebbero, invece, orientare le nostre
scelte di consumo. E ogni altro principio di
tutela della produzione agricola viene respinto in base a una concezione della
qualità totalmente
‘sbilanciata’ sul
fronte dell’apparenza, anziché verso quello
‘proteico-nutrizionale’. Possiamo davvero continuare a volgere il nostro sguardo da un’altra parte, mentre
il cibo viene gettato via e
milioni di persone muoiono di fame? Eppure, è esattamente ciò che avviene in molte parti del pianeta. Le
leggi della concorrenza e della
sopravvivenza del più forte fanno sì che i
Paesi ricchi traggano vantaggio dalla
debolezza di quelli
poveri. Uno
‘scarto’ pienamente evidente sul
mercato del lavoro, dove il concetto di
disoccupazione è stato sostituito da quello di
‘esubero’, con il conseguente senso di inutilità e di esclusione che questo comporta. Una questione che sta alla base persino delle
migrazioni africane, poiché è proprio quest’idea di
‘scartare’ e di
‘escludere’ a creare la
‘diaspora’ di intere masse di persone, generando
nuovi razzismi e
guerre tra poveri. Tutto questo si collega al tema
dell’interdipendenza dell’umanità: se, in passato, erano stati creati
strumenti di azione collettiva che, per quanto
imperfetti, potevano servire a
tutelare le popolazioni, oggi ci ritroviamo innanzi a una realtà basata sulle reti di
‘dipendenza reciproca’, che si estendono in ogni angolo del mondo e che sono la punta più avanzata di quella che, con un termine di sintesi, è stata definita:
globalizzazione. E’ la
globalizzazione, infatti, a generare le
cicliche crisi economiche a cui, di volta in volta, stiamo assistendo, poiché essa non è affatto la
soluzione degli squilibri, bensì ne è la
causa principale. La
globalizzazione è una sorta di
‘Giano bifronte’, che impedisce di individuare nuovi strumenti per occuparci dei problemi in maniera
solidale, perché i
meccanismi commerciali attualmente dominanti servono solamente gli
interessi egoistici di un
oligopolio differenziato composto da enormi
colossi multinazionali, i quali impongono le loro
regole, i loro
prezzi e persino i loro
prodotti a tutti quanti e su tutti i mercati. Una delle risposte individuate, per esempio, è quella di
obbligare le aziende a
fermare l’industria della monocoltura, in favore della
biodiversità e di
un’agricoltura ecosostenibile, al fine di evitare la
desertificazione e il
depauperamento dei terreni agricoli. Ma siamo ancora
all’abbozzo di una risposta e non certo alla
conversione della direzione di marcia del nostro
modello di sviluppo. La
globalizzazione è un
paradosso economico, che genera discrepanze tra
sovrapproduzione agricola - a vantaggio delle grandi aziende – e
scarsa redditività dei prodotti, danneggiando tutta la
filiera agricola e gli
agricoltori in particolare. Insomma, in ogni settore economico della produzione,
l’interdipendenza globalizzata impedisce d’impostare
nuovi tipi di relazioni non soltanto tra
singoli individui, ma persino tra i
popoli, mettendo a rischio ogni
obiettivo di stabilità e di
coesistenza pacifica in tutto il mondo. E’ giunto il momento di
invertire tale direzione di marcia, dato che questo
modello di sviluppo non solo si sta
avvitando su se stesso, ma come dimostrato dalla pandemia da
Covid 19 di quest’ultimo anno, finisce col diffondere in tutto il mondo più i suoi
aspetti negativi, come gli
allevamenti intensivi di animali destinati alla macellazione, che quelli
positivi. I
difetti della globalizzazione sono ormai sotto gli occhi di tutti. E di
pregi se ne sono visti
ben pochi.
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(editoriale tratto dal n. 61 del mensile 'Periodico italiano magazine' - marzo 2021)