“A causa del Covid, non c’è bergamasco che non abbia dovuto dire addio a una persona a cui voleva bene”. Queste le parole del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, nel corso della giornata di celebrazione delle vittime del Covid, tenutasi presso la ‘città dei Mille’ lo scorso 18 marzo. Ed è vero: il sottoscritto, nel giro di un anno, di familiari ne ha persi addirittura tre, tutti appartenenti alla cerchia più ristretta: la sorella di mia nonna, il cui corpo era su uno di quei camion che, nell’oscura alba lombarda del 18 marzo 2020, ha trasportato migliaia di deceduti per coronavirus presso una fossa comune; la sorella di mio padre; infine, nel giro di poche settimane, il Covid 19 è riuscito a portarsi via anche mia madre. Quest’ultimo lutto è stato addirittura preceduto, nella notte del mio compleanno, da una visita in sogno di una strana entità, che ha assunto le sembianze di mio padre e che, all’interno del parco romano di Villa Borghese, è venuto ad annunciarmi di essere lui il responsabile della pandemia planetaria e di essere giunto sino a Roma per prendersi anche mia mamma, insieme ai tanti bergamaschi che già era riuscito a portarsi via. Quest’incontro onirico non è stato spaventoso: non mi sono risvegliato impressionato o scosso, pur essendomi ritrovato innanzi a mio padre dopo molti decenni e nonostante fossi consapevole di essere faccia a faccia con una persona deceduta da tempo. Nei giorni seguenti, ho riflettuto molto intorno a questo strano sogno: quel che continuava a non convincermi era il fatto che, nei confronti di mio padre, non avevo percepito alcun trasporto, nessuna gioia nel rivederlo. Perché mi sono comportato così? Perché non ho saputo dire neanche una parola? Perché non ho provato nulla, sia durante il sogno, sia al mio risveglio? Ebbene, io ritengo di non aver ricevuto la visita di mio padre, bensì di qualcuno che ha voluto assumere le sue sembianze, per venirmi a dire quel che mi doveva riferire. Credo, insomma, di aver ricevuto una visita del diavolo sotto mentite spoglie. Scrivo tutto ciò molto laicamente, ben sapendo che, in questi vent’anni, ho sempre invitato gli amici e lettori di questa testata a diffidare di tutto ciò che è esoterico, superstizioso o anche solo vagamente soprannaturale. Eppure, anche a costo di esser preso per pazzo, vengo a confessare di essere ossessionato, in questo periodo, da questo incubo: ci sono andato in ‘fissa’ e continuo a pensarci, continuamente. E mi sono convinto che il diavolo, o chiunque fosse l’entità che si è presentata innanzi a me, ce l’avesse, in particolare, con la mia gente, fino al punto di raggiungere Roma per prendersi una bergamasca in più. Un’entità malvagia, che ha scatenato una tempesta e che, all’interno di questa, ha espresso una preferenza evidente nei confronti delle popolazioni più attive e dinamiche. Così, mi sono tornati alla mente molti luoghi della mia terra d’origine. E mi sono ricordato della ‘Porta del diavolo’ di Celadina, una frazione sulla strada per Seriate, in cui risiedeva la famiglia di Torquato Tasso. Una porta che, secondo la leggenda, sarebbe stata costruita dal ‘Maligno’ per lasciare per sempre una traccia di sé. Le tradizioni popolari ‘orobiche’ conservano tantissime leggende relative alle apparizioni del diavolo: una sorta di folclore dalle connotazioni macabre, che parla di sette sataniche, fantasmi, demoni e streghe. Come per esempio la ‘Gattacornia’, un personaggio delle Prealpi bergamasche molto simile alla strega di Blair - il famoso ‘docufilm’ horror del 1999 - e persino qualche ‘lupo mannaro’ come il signor Costante: un povero malato di mente che, ai primi del Novecento, si aggirava di notte tra i boschi della Maresana e che, nelle notti di Luna piena, era soggetto a delle profonde crisi di schizofrenia, le quali lo portavano a ululare e a latrare come una bestia. Una sorta di Antonio Ligabue privo, tuttavia, del talento del grande pittore ‘naif’ della bassa padana. Sia come sia, all’interno delle tradizioni popolari bergamasche il diavolo ha sempre avuto un posto d’onore. E infatti, la sua presenza perdura ancora oggi nella toponomastica locale e nel dialetto più stretto, in un ricco florilegio di storie e leggende tramandate di generazione in generazione. Nelle valli bergamasche esistono luoghi come la Val d’inferno, il Pizzo del diavolo, il Lago del diavolo e il Passo di Baciamorti. Luoghi che rievocano oscure storie di anime dannate, di uomini con piedi di capra e di preti esorcisti. Persino Arlecchino, la stravagante maschera della commedia dell’arte ‘rubata’ ai bergamaschi dalla città di Venezia, secondo il Goldoni aveva legami stretti con il diavolo: lo incontrava spesso e, talvolta, ci parlava. In altre occasioni, era costretto a fuggire a gambe levate, poiché perseguitato dalla creatura demoniaca, che si divertiva a spaventarlo. Se la rappresentazione di certe tradizioni scaturisce dalle angosce umane, l’aspetto del demonio, nell’accezione più ampia del termine, ha sempre permeato le storie popolari della città di Bergamo, quasi tormentata da una dannazione latente. Il demonio è apparso più volte a Bergamo, in varie forme e sotto varie vesti: una creatura in continuo contatto con l’uomo, con il quale stringe patti peccaminosi e sacrileghe amicizie. Un angelo sleale e traditore, capace di trasformarsi da elegante cavaliere in un essere terrificante, in parte umano e in parte bovino. Nella provincia bergamasca sono tantissimi i luoghi in cui egli è apparso. Posti caratterizzati da aspetti particolarmente aspri e pericolosi, misteriosi e inquietanti nella loro conformazione. A cominciare da una delle montagne-simbolo della catena orobica: quella più alta, ai cui piedi ha origine il fiume Brembo. E’ il Pizzo del diavolo: una piramide impervia, che incute timore e che, con l’adiacente ‘Diavolino’, risulta essere una delle vette orobiche più ambite dagli appassionati di alpinismo. Non molto lontano, vicino al rifugio Longo, c’è anche il Lago del diavolo, in cui si rispecchia la cima dell’Aga. Un laghetto di montagna in cui io stesso trascorsi un’interna giornata d’estate da ragazzo, insieme ai miei amati cugini. La sua valle, in particolare la zona del Monte Sasso, è sempre stata ricca di ferro. E infatti, in passato, vi era un forno fusorio che veniva costantemente alimentato a carbone. Il fuoco e la fusione del ferro sono all’origine del toponimo anche della Val d’inferno: una valle che dal comune di Ornica sale sino al Pizzo dei tre signori e che, un tempo, si chiamava Val Fornasicchio, per la presenza di forni e fucine per la lavorazione del ferro estratto dalle miniere della zona. La fantasia popolare non tardò ad associare l’immagine del fuoco di tali impianti a quella dell’inferno: il luogo infuocato per eccellenza. Secondo una leggenda, la maggior parte di quei forni erano gestiti da forestieri provenienti dalla Valsassina, i quali, quando si ritrovavano a corto di legna, non si facevano scrupolo di rapire gli abitanti di Ornica per gettarli vivi nella fornace, allo scopo di alimentarne il fuoco. Il timore di cadere vittime di quei feroci fabbri ferrai assalì gli abitanti di Ornica, che pensarono appunto di chiamare quel luogo: ‘Val d’inferno’. Un paesaggio aspro e spoglio, composto da rupi e massi all’interno di una fitta boscaglia. Percorrendola tutta, la Val d’inferno, neanche a dirlo, conduce alla Bocchetta d’inferno, dopo essere passati innanzi alla ‘Sfinge’: un enorme sperone di montagna che riproduce quasi fedelmente il volto del famoso monumento egizio. Nella stessa zona merita di essere citato il Monte Avaro, che non c’entra quasi niente con il diavolo, ma rievoca la leggenda di un arcano patto con l’essere malvagio per eccellenza. Infatti, l’antico proprietario terriero di quei pascoli, persona assai gretta e taccagna, denominata da tutti “ol Avarù” (letteralmente: l’avarone, ndr), venne convinto dal demonio a vendergli la sua anima, in cambio di un paesaggio più verde e un alpeggio più fertile. Ma la topografia bergamasca rileva tantissimi altri posti, rimasti ben vivi nella tradizione orale delle popolazioni orobiche, come la ‘Corna (roccia, ndr) del diavolo’; la ‘Büsa del diàol’; la ‘Forca del diàol’ (il Passo La Forca, nei pressi del Monte Alben, ndr); la ‘Cà o stala del diàol’ (la casa o stalla del diavolo, ndr); il ‘Ponte del diavolo’, situato nei pressi del tempio romanico di San Tomé, ad Almenno, che la leggenda vuole sia stato costruito dal diavolo in una sola notte, in cambio dell’anima della prima persona che vi sarebbe transitata. Ma il diavolo non ha solamente seminato il panico tra le vallate bergamasche. In molti casi, ha addirittura lasciato le sue impronte. Non è raro trovare, ancora oggi, lungo i sentieri di montagna, alcune pietre sulle quali sono incise le sue orme, che hanno la forma di grossi zoccoli bovini. Attorno a queste strane tracce sono nate, nel corso dei secoli, altre leggende legate al passaggio o alle apparizioni del demonio. Lungo la mulattiera che da Aviatico sale verso Costa Serina, a un certo punto, sul fianco della strada, vi è una pietra di forma rettangolare totalmente piatta, sulla quale sono palesi le impronte di due piedi bovini e la sagoma di una lampada a olio, solitamente usate nelle baite di montagna, dove la luce elettrica non è mai arrivata. La vicenda legata a quella pietra vede come protagonista una ragazza che, nonostante le severe proibizioni dei genitori, si recò ugualmente a ballare in un’osteria di Aviatico. Alla notte, nel fare ritorno a casa, uno sconosciuto si offrì di accompagnarla e, giunti presso la pietra e deposto il lume che il ragazzo aveva con sé per rischiarare il cammino, la invitò a ballare sopra di essa. Durante la danza, la ragazza si accorse che il suo accompagnatore aveva stinchi e piedi bovini, ma non fece in tempo a fuggire, poiché la pietra si aprì e la inghiottì insieme al suo infernale cavaliere. Stessa sorte toccò a un’altra giovane appassionata delle danze, che viveva nei pressi del bosco della Val Pagana: un nome che già di per sé evoca apparizioni inquietanti. Inutile il tentativo della famiglia di rinchiudere la figliola dentro casa: una notte venne rapita da un bellissimo giovane, che in seguito si rivelò una mostruosa creatura con gli occhi infuocati, due piccole corna aguzze sulla testa, il corpo ricoperto di un lungo pelo fulvo, una lunga coda attorcigliata e due poderosi zoccoli bovini al posto dei piedi. Tra gli occhi terrorizzati dei familiari e le urla della ragazza, il demone, stringendo a sé il corpo della giovane, prese il volo e si gettò nello strapiombo che si apre sotto il Santuario del Perello. Le fiamme dell’inferno li avvolse per sempre, ma proprio sull’orlo del precipizio sono rimaste impresse nella roccia le grandi impronte bovine lasciate dalla creatura nel momento di spiccare il folle volo. Anche su un’altra pietra, situata sulla strada che da Brembilla conduce a Gerosa, vi sono le stesse identiche impronte. E ancora oggi, le signore più anziane, quando passano in fianco a quelle tracce, usano farsi il segno della croce. Il principe delle tenebre si presenta, oggi, con le caratteristiche accreditate dall’iconografia demoniaca occidentale. Ovvero: corna, occhi infuocati, peluria e odore sulfureo. Ma la forma più antica e tradizionale della sua immagine è la figura semiumana o semianimale, che deriva dalla mitologia dei fauni, o in genere da coloro che abitavano i boschi e che la superstizione cattolica aveva trasformato in demoni. Figura tipica delle comunità alpine, di cui resta un pregevole affresco presso la casa di Arlecchino a Oneta, una frazione di San Giovanni Bianco, è quella dell’homo salvadego: una creatura a mezza strada tra l’animale e l’uomo, che alcuni dicono fosse il risultato di un incrocio mostruoso, mentre altri non esitano a equipararlo al demonio. La tradizione popolare ne ha tratto una serie di leggende di cui si sono quasi del tutto perse le tracce, salvo i generici riferimenti all’orco e all’uomo nero, spesso evocati dalle mamme per convincere i bambini a comportarsi bene. In alta val Brembana, precisamente a Santa Brigida, si ricorda ancora oggi l’avventura del Rossàl: un uomo solitario, schivo e malvagio, che secondo la leggenda venne portato via dal diavolo in persona. Il demonio viene tradizionalmente accomunato anche ad alcuni animali, in particolare al serpente e al drago. Il serpente è l’animale diffamatore di Dio già nella Bibbia, che conduce prima Eva e poi Adamo verso il peccato originale. Secondo alcune interpretazioni, la definizione del diavolo nell’ambito della cultura popolare avrebbe origine nella letteratura devozionale e nella demonizzazione di antiche pratiche pagane, mai completamente estinte. La tradizione agiografica considera il diavolo come un personaggio-tentatore di santi e persone pie: la lotta di San Giorgio contro il drago, per esempio, non è un tema cristiano, ma affonda le proprie radici nel paganesimo. E un affresco che ritrae tale epica lotta è visibile nell’antica chiesa del Cornello, vera patria dei Tasso, mentre un altro, risalente al XIII secolo, lo si può ammirare nella chiesa di San Giorgio in Lemine, ad Almenno San Salvatore, dove si trova anche l’enorme costola di un animale che, secondo la tradizione, sarebbe appartenuta a un’enorme creatura che viveva nei pressi del Brembo. In entrambi gli affreschi, San Giorgio monta un cavallo sauro, bianco e grigio, con sella e finimenti neri. E con una lunga picca trafigge la testa del drago, interamente rosso, liberando una principessa dalle sue brutali fauci. Memorie di antichi draghi non sono rimaste solo nella bassa Val Brembana, ma anche tra le oscure grotte della parte più alta. Ai piedi del Monte Filone, all’ombra dei folti castagni di Santa Brigida, si apre nella viva roccia una profonda grotta, chiamata dai locali: “La büsa”. Era il soggiorno estivo di un animale di dimensioni colossali, dalla testa enorme e piatta, sormontata da creste ossee ricoperte di lunghi e lucidi peli color turchino; la bocca era fornita di denti giganteschi e di una lingua biforcuta: una sorta di mostro di Loch Ness in versione 'montanara'. Nel corso dei secoli, la fantasia popolare ha generato una serie di creature che non rispondono al diavolo, ma che alimentano ancora oggi misteri atavici. Come la ‘cavra sbrègiola’: un animale notturno che nessuno ha mai visto, ma che aveva il vizio di rapire e divorare i bambini cattivi; poi c’è la storia di un drago volante o di un serpente con la cresta e le ali; e c’è la vicenda, meno remota, del ‘marass’ o dello ‘scorlèt’, che nell’estate del 1936 apparve tra le colonne di un giornale di Bergamo, suscitando una vivace polemica tra alcuni biologi: un ‘viperone’ enorme, grande quanto il braccio di una persona, quasi un pitone di montagna. Fra rettili e draghi, all’improvviso appaiono, nella tradizione bergamasca, altre bestie feroci ‘sputate’ dall’inferno. Se ne occupò persino Bortolo Belotti, un grande storico e poeta della Val Brembana, che in pochi scorrevoli versetti parla della ‘Caccia del diavolo’ lungo la Müghera, il monte che sta di fronte al Pizzo e al paese di Spino, tra Ambria e le terme di San Pellegrino: “Negra di pelo, orribile, con gli occhi/fiammeggianti, vedevasi una cagna/fuggire velocissima ululando; e dietro a essa un’affannosa muta/di segugi fantastici e dovunque/voci d’inferno e strider di catene/che l’eco ripetea di balza in balza”. Sono versi che fanno riferimento alla leggenda di un gruppo di spettri maledetti, per non aver rispettato i precetti cristiani domenicali e aver preferito la corsa all’inseguimento di camosci e altre prede braccate per valli e per monti. Un’altra versione della stessa leggenda è quella della ‘cassa da morto del diavolo’, nella quale dei feroci cani dagli occhi rossi come carboni accesi portavano sulle loro spalle una cassa diffondendo paura e morte ovunque, ma un impavido prete vinse la muta indemoniata riportando tranquillità nella valle. Altre leggende, sempre di ammonimento per chi non santificava le feste, hanno avuto per teatro i luoghi selvaggi e desolati della Valle Stabina, nei pressi di Valtorta, dove le alte pareti che fiancheggiano la strada sprofondano in burroni paragonabili alle foibe carsiche. Si narra che una domenica mattina, un uomo di Valtorta, invece di andare a messa, decise con alcuni compagni di recarsi in quel luogo impervio per tagliare la legna del bosco situato sul fondo della valle. Uno di loro si calò con una corda lungo la parete rocciosa, ma presto tutti si accorsero che la corda si allungava sempre più e il burrone diventava sempre più profondo. Tentarono disperatamente di tirarlo su, ma le alte fiamme e gli artigli di una creatura immonda lo trascinarono per sempre verso il fondo del burrone. Si dice anche che, passando di notte da quelle parti, si possano sentire ancora oggi gli inquietanti lamenti di questo ladro di legna. Sempre in Valle Stabina, al bivio tra Ornica e Valtorta, su una parete rocciosa a strapiombo sulla valle, si può notare ancora oggi un crocifisso deposto nel 1909 dal parroco di Valtorta, don Stefano Gervasoni: un prete esorcista convinto che in quel punto fossero confinate le anime di coloro che, da vivi, avevano disertato la dottrina e le pratiche religiose, preferendo a esse il lavoro e il divertimento. La tradizione popolare bergamasca, insomma, è ricca di racconti e leggende sul diavolo e l’inferno. Non c’è paese che non abbia la sua storia legata ad apparizioni del demonio, dalle sembianze più bizzarre. Alcune baite hanno persino mantenuto dei tetri appellativi, come la Baita del diavolo in Val d’inferno, dimora di un vecchietto magro e calvo dalla lunga barba bianca e dagli zoccoli bovini, che invece della polenta aveva il paiolo zeppo di marenghi d’oro; o la Baita della capra in quel di Carona, dove due giovani cacciatori ebbero l’insolita visita di un’ammaliante streghetta. Sempre viva nella memoria è la storia delle due sorelle della Pianca: appartatesi con due sconosciuti giovanotti presso la loro stalla, all’ombra delle maestose Torri del Cancervo, si accorsero che entrambi avevano zoccoli bovini al posto dei piedi. Una delle due sorelle riuscì a fuggire e ad avvertire il padre, ma dell’altra non restò che un mucchio di cenere. Morale della favola: mai dare retta agli sconosciuti, perché il diavolo si nasconde sempre dove meno ci si aspetta. Inoltre, il diavolo compare sempre all’improvviso da un evento ritenuto straordinario, come per esempio durante i temporali: “Il diavolo in carrozza”, per esempio, è uno dei modi con cui i bergamaschi definiscono il rumore dei tuoni. Il diavolo, insomma, per noi bergamaschi è dappertutto: dietro ogni angolo, nei luoghi più oscuri e nelle manifestazioni più estreme della natura, comprese le pandemie. Sino a infiltrarsi nel dialetto con proverbi e modi di dire dai toni vivaci e molto caratteristici. I motti più famosi sono i seguenti: “L’è ol diàol in carne e òss" (è il diavolo in carne e ossa); "a l’gh’à ol diàol adòss" (ha il diavolo addosso); "l’è ol diàol in persuna" (è il diavolo in persona); "l’è tant catìf che l’la öl gna’l diàol" (è tanto cattivo che non lo vuole nemmeno il diavolo); "a l’ghe n’sa öna piö del diàol" (ne sa una di più del diavolo); "a l’è impatàt col diàol" (ha fatto un patto con il diavolo); "a l’ghe la fa gna’l diàol" (non lo inganna nemmeno il diavolo). Tutte espressioni che indicano una persona malvagia o molto astuta, che ottiene sempre quello che vuole. Non mancano, ovviamente, le massime legate ai soldi e agli affari: “Chi gh’à pura del diàol fa miga di sólcc" (chi ha paura del diavolo non fa i soldi); "bisognerèss ìga di amìs ach a cà del diàol" (bisognerebbe avere amici anche a casa del diavolo); "a ardà tròp in de spècc, a s’vèd ol diàol" (se ci si specchia troppo, appare il diavolo). E bisogna fare attenzione anche nella vita di tutti i giorni, perché "ol diàol a l’cassa i córegn depertöt" (il diavolo mette le corna dappertutto), "al te pórta vià ‘l diàol coi cadéne foghéte" (ti porta via il diavolo con le catene infuocate), "s’ga ol diàol in cà" (ha il diavolo in casa) e "la farina del diàol la fenéss in crösca" (la farina del diavolo diventa crusca). E c’è anche un diavolo buono: "ü póer diàol, ü diàol bù"; e quello che, con un pizzico di ironia, si dice: “L’è prope u diàol” (è proprio un diavolo)! Quando non si sta più nella pelle per la fame, per il freddo o per la fretta, spunta nuovamente il diavolo: “öna fam, u frècc, öna frèssa del diàol”! E quando, infine, i toni vanno un po’ sopra le righe, si potrà assistere a un bergamasco adirato che impreca: “Diàol bès-cia! Diàol cane! Pòrco diàol”! Motti salaci tipici della gente bergamasca, repertorio di tante rappresentazioni della commedia dell’arte ‘goldoniana', in cui il diavolo è una presenza costante, sempre appresso alle figure più strambe: dal pazzo al brigante, dal malvagio al traditore. E si torna, dunque, al nostro Arlecchino, il servo tonto e un po’ ingenuo conosciuto in tutto il mondo, che in realtà nasconde, dietro la sua maschera, un volto dall’origine demoniaca. Sarà forse per la sua goffa e leggendaria figura, vicina a quell’homo salvadego da secoli immortalato presso quella che si ritiene essere la sua antica casa a Oneta, frazione di San Giovanni Bianco. O forse, per l’origine del suo nome, di derivazione francese: Hellequin, o Herlequin, perfetto richiamo al demone Herlechinus, che nella tradizione letteraria francese rappresenta il diavolo in persona. Anche Dante Alighieri, nella Divina Commedia, parla di un diavolo di nome Alichino, incontrato nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio dell’inferno. E tutta la tradizione popolare dell’alto medioevo ha spesso associato le rappresentazioni dei buffoni mascherati al diavolo: un diavoletto comico; un “povero diavolo”. Risulta difficile scorgere tra le buffe sembianze di Arlecchino un’anima posseduta dal demonio. Anche se le protuberanze nere che ostenta sulla fronte della sua maschera sembrano ricordare proprio le corna di un diavolo.