Chi frequenta i
blog e ama seguire il dibattito del
web, avrà incontrato sicuramente prima di altri alcune idee. Venendo a conoscenza di determinati filoni di pensiero, che ogni tanto si insinuano nei
palinsesti televisivi e nei
canali mainstream. Se poi ci si definisce coscientemente
“sovranista”, o si ha una sensibilità in linea con quell’immaginario, non sfuggiranno alcuni
schemi interpretativi che senza neanche accorgersene sono
interiorizzati e ormai da tempo affrancati
dall’analisi critica. Sarà capitato a molti, anche a cena con gli zii che hanno visto per la prima volta
Diego Fusaro in tv solo qualche mese fa, sentire qualcuno proporre un parallelismo tra
neoliberalismo economico e
libertà dei costumi. Lo
sradicamento, l’esortazione alla
mobilità, la delegittimazione del
patriottismo e l’esaltazione
dell’animo cosmopolita, secondo certe persone sono il
grimaldello più efficace per far abituare l’individuo anche alla
precarietà lavorativa, giustificando ogni tipo di sfruttamento alla luce delle
leggi di mercato. Quel
mercato che, però, fa sempre la fortuna di
pochi e non è buono per le
masse. Molti
ci credono. La caduta dei
valori tradizionali, la messa in discussione dei
generi, il
disfacimento della famiglia e il sempre più marcato
individualismo, sono terreno fertilissimo per impiantare il
capitalismo più sfrenato e la
dittatura finanziaria. Frasi che, di primo acchito, sembrano pure molto
intelligenti: se il mio rapporto di lavoro è
precario per natura, allora perché non devo pensare che anche il mio
matrimonio sia un
negozio giuridico come un altro e che possa
scioglierlo quando voglio, senza comprenderne il
valore trascendente? Eh sì, quello strano
‘ragazzo-pensatore’, che viene da
Torino e come maestro ha
Costanzo Preve, è riuscito anche a far odiare persino il
’68. Chiaramente, il seme
dell’individualizzazione moderna, dell’atomizzazione, della società basata sul
capriccio e non sul
dovere: un modello d’esistenza legato alle
esigenze personali (per lo più afferenti alla
sessualità) più che ai
principi collettivi. I classici ruoli, così necessari alla coesione sociale e al mantenimento dell’ordine, sono stati spazzati via dalla
pretesa di liquidità, dall’insofferenza verso tutto ciò che è
responsabilità, missione, valore fondativo. Ma certo! E’ proprio per questo che siamo diventati tutti
liberisti e
fanatici dell’euro. Bisogna dirlo onestamente: sono
concetti affascinanti e hanno colpito un po’ tutti quelli che non si riconoscevano nell’ambiente ufficialmente detto
‘progressista’. Eppure, se cerchiamo di andare oltre la
seduzione di opinioni ben espresse, le quali hanno – va ammesso –
una parte di verità, ci accorgiamo senza troppo sforzo che certi collegamenti sono assai
azzardati. Identificare
l’apertura dei costumi con
l’apertura dell’economia è un’operazione filosofica che
non sta in piedi: non c’è alcuna prova che una
concezione liquida delle
relazioni sociali e della
sessualità abbia portato alla
liquidità del
modello di sviluppo, in cui la mobilità del fattore lavoro sia istigato dalla propensione delle persone a non avere punti fermi esistenziali. Un’analisi del genere si costruisce da una chiave, di fondo,
illusoria. Ovvero, l’idea che a una maggiore
stabilità dei valori e
dell’organizzazione sociale, corrisponda sempre una equivalente
stabilità economica. Non è mai stato così. E anche adesso, tale coerenza è
difficile da riscontrare. Facciamo qualche esempio lampante, facile per tutti da inquadrare. Nella prima metà del novecento,
l’Italia era un
Paese agricolo, caratterizzato da enormi
sacche di povertà. Lo
Statuto dei lavoratori ancora non esisteva, le politiche
'keynesiane' non si erano imposte ovunque e la
piena occupazione non era un tema all’ordine del giorno. Però, la
famiglia era il
cardine della
struttura sociale. I nuclei erano allargati, i nonni molto spesso vivevano ravvicinati ai nipoti, se non sotto lo stesso tetto. Non si poteva
divorziare, né
abortire. A ogni modo, sarebbe sbagliato dire che l’esistenza di quelle generazioni
non fosse precaria e ben lontana dagli
standard del
secondo novecento. Veniamo a oggi e poniamo un esempio inverso: i
Paesi scandinavi sono noti per il loro ottimo
welfare e un sistema del lavoro abbastanza rigido e sicuro, nonostante negli ultimi anni anche lì si siano avute riforme per una maggiore flessibilità. Tuttavia, il
‘jobs act’, la
legge Biagi e i
contratti a intermittenza non sono mai entrati nella loro
‘vulgata’. Al contempo, il loro stile di vita è
individualista e la
famiglia viene abbandonata
molto presto. In
Svezia, nel
2010, il
60% della popolazione era
'single'. C’è anche un interessante documentario, intitolato
‘La teoria svedese dell’amore’, che mostra come il
morire in solitudine e all’insaputa degli altri sia un fenomeno abbastanza comune in
Svezia. Insomma, non siamo certo davanti a una nazione contraria al
primato dell’individuo. Ora analizziamo, invece, tutt’altra fattispecie, anche se è solo un ricordo e non più un fenomeno centrale. Pensiamo
all’ondata collettivista degli
anni ’70 del secolo scorso, sia in
Italia, sia nel
resto del mondo. Il movimento dei
‘Figli dei fiori’, quelli che andavano a vivere nelle
comuni e si votavano a un modello produttivo di
sussistenza, non erano certo attaccati ai vecchi valori. Predicavano
l’amore libero, tralasciavano il concetto di
famiglia mononucleare, o quantomeno facevano sì che diverse famiglie decidessero di
vivere assieme, condividendo le
entrate economiche e le
spese. Socializzando, di fatto, la produzione, che era
auto-produzione. Gruppi come questi,
poligamici o comunque
‘non allineati’ alla tradizione, avevano uno
spiccato senso sociale e combattevano contro le basi del
mondo borghese e capitalista. Infine, in giorni più vicini ai nostri, un intellettuale stimatissimo come
Pier Paolo Pasolini, pur richiamando spesso la
dignità e la
purezza di alcuni
antichi valori, metteva in guardia dalla
raffigurazione edulcorata della
famiglia. La
famiglia in quanto depositaria dei sani principi di
parsimonia, contegno e
sobrietà, cozzava con la realtà della
nuova famiglia piccolo-borghese contestuale al
boom economico, tutta presa dal
consumismo, dai modelli della
società dello spettacolo e tanto attratta
dall’America edonista. Pochi e brevi esempi, che però bastano a
confutare una narrazione facile e
schematica, che fa combaciare il
tradizionalismo e la
semplicità con una
società più equa, più
stabile e più
solidale. Un
parallelismo accattivante, ma
mai esistito. Con buona pace dei
nuovi intellettuali sovranisti. Hanno abilità nell’animare il
dibattito. Ma di certo,
non sono oracoli.
Giornalista, collaboratore del quotidiano 'Il Messaggero' di Roma