Giampiero CinelliChi frequenta i blog e ama seguire il dibattito del web, avrà incontrato sicuramente prima di altri alcune idee. Venendo a conoscenza di determinati filoni di pensiero, che ogni tanto si insinuano nei palinsesti televisivi e nei canali mainstream. Se poi ci si definisce coscientemente “sovranista”, o si ha una sensibilità in linea con quell’immaginario, non sfuggiranno alcuni schemi interpretativi che senza neanche accorgersene sono interiorizzati e ormai da tempo affrancati dall’analisi critica. Sarà capitato a molti, anche a cena con gli zii che hanno visto per la prima volta Diego Fusaro in tv solo qualche mese fa, sentire qualcuno proporre un parallelismo tra neoliberalismo economico e libertà dei costumi. Lo sradicamento, l’esortazione alla mobilità, la delegittimazione del patriottismo e l’esaltazione dell’animo cosmopolita, secondo certe persone sono il grimaldello più efficace per far abituare l’individuo anche alla precarietà lavorativa, giustificando ogni tipo di sfruttamento alla luce delle leggi di mercato. Quel mercato che, però, fa sempre la fortuna di pochi e non è buono per le masse. Molti ci credono. La caduta dei valori tradizionali, la messa in discussione dei generi, il disfacimento della famiglia e il sempre più marcato individualismo, sono terreno fertilissimo per impiantare il capitalismo più sfrenato e la dittatura finanziaria. Frasi che, di primo acchito, sembrano pure molto intelligenti: se il mio rapporto di lavoro è precario per natura, allora perché non devo pensare che anche il mio matrimonio sia un negozio giuridico come un altro e che possa scioglierlo quando voglio, senza comprenderne il valore trascendente? Eh sì, quello strano ‘ragazzo-pensatore’, che viene da Torino e come maestro ha Costanzo Preve, è riuscito anche a far odiare persino il ’68. Chiaramente, il seme dell’individualizzazione moderna, dell’atomizzazione, della società basata sul capriccio e non sul dovere: un modello d’esistenza legato alle esigenze personali (per lo più afferenti alla sessualità) più che ai principi collettivi. I classici ruoli, così necessari alla coesione sociale e al mantenimento dell’ordine, sono stati spazzati via dalla pretesa di liquidità, dall’insofferenza verso tutto ciò che è responsabilità, missione, valore fondativo. Ma certo! E’ proprio per questo che siamo diventati tutti liberisti e fanatici dell’euro. Bisogna dirlo onestamente: sono concetti affascinanti e hanno colpito un po’ tutti quelli che non si riconoscevano nell’ambiente ufficialmente detto ‘progressista’. Eppure, se cerchiamo di andare oltre la seduzione di opinioni ben espresse, le quali hanno – va ammesso – una parte di verità, ci accorgiamo senza troppo sforzo che certi collegamenti sono assai azzardati. Identificare l’apertura dei costumi con l’apertura dell’economia è un’operazione filosofica che non sta in piedi: non c’è alcuna prova che una concezione liquida delle relazioni sociali e della sessualità abbia portato alla liquidità del modello di sviluppo, in cui la mobilità del fattore lavoro sia istigato dalla propensione delle persone a non avere punti fermi esistenziali. Un’analisi del genere si costruisce da una chiave, di fondo, illusoria. Ovvero, l’idea che a una maggiore stabilità dei valori e dell’organizzazione sociale, corrisponda sempre una equivalente stabilità economica. Non è mai stato così. E anche adesso, tale coerenza è difficile da riscontrare. Facciamo qualche esempio lampante, facile per tutti da inquadrare. Nella prima metà del novecento, l’Italia era un Paese agricolo, caratterizzato da enormi sacche di povertà. Lo Statuto dei lavoratori ancora non esisteva, le politiche 'keynesiane' non si erano imposte ovunque e la piena occupazione non era un tema all’ordine del giorno. Però, la famiglia era il cardine della struttura sociale. I nuclei erano allargati, i nonni molto spesso vivevano ravvicinati ai nipoti, se non sotto lo stesso tetto. Non si poteva divorziare,abortire. A ogni modo, sarebbe sbagliato dire che l’esistenza di quelle generazioni non fosse precaria e ben lontana dagli standard del secondo novecento. Veniamo a oggi e poniamo un esempio inverso: i Paesi scandinavi sono noti per il loro ottimo welfare e un sistema del lavoro abbastanza rigido e sicuro, nonostante negli ultimi anni anche lì si siano avute riforme per una maggiore flessibilità. Tuttavia, il ‘jobs act’, la legge Biagi e i contratti a intermittenza non sono mai entrati nella loro ‘vulgata’. Al contempo, il loro stile di vita è individualista e la famiglia viene abbandonata molto presto. In Svezia, nel 2010, il 60% della popolazione era 'single'. C’è anche un interessante documentario, intitolato ‘La teoria svedese dell’amore’, che mostra come il morire in solitudine e all’insaputa degli altri sia un fenomeno abbastanza comune in Svezia. Insomma, non siamo certo davanti a una nazione contraria al primato dell’individuo. Ora analizziamo, invece, tutt’altra fattispecie, anche se è solo un ricordo e non più un fenomeno centrale. Pensiamo all’ondata collettivista degli anni ’70 del secolo scorso, sia in Italia, sia nel resto del mondo. Il movimento dei ‘Figli dei fiori’, quelli che andavano a vivere nelle comuni e si votavano a un modello produttivo di sussistenza, non erano certo attaccati ai vecchi valori. Predicavano l’amore libero, tralasciavano il concetto di famiglia mononucleare, o quantomeno facevano sì che diverse famiglie decidessero di vivere assieme, condividendo le entrate economiche e le spese. Socializzando, di fatto, la produzione, che era auto-produzione. Gruppi come questi, poligamici o comunque ‘non allineati’ alla tradizione, avevano uno spiccato senso sociale e combattevano contro le basi del mondo borghese e capitalista. Infine, in giorni più vicini ai nostri, un intellettuale stimatissimo come Pier Paolo Pasolini, pur richiamando spesso la dignità e la purezza di alcuni antichi valori, metteva in guardia dalla raffigurazione edulcorata della famiglia. La famiglia in quanto depositaria dei sani principi di parsimonia, contegno e sobrietà, cozzava con la realtà della nuova famiglia piccolo-borghese contestuale al boom economico, tutta presa dal consumismo, dai modelli della società dello spettacolo e tanto attratta dall’America edonista. Pochi e brevi esempi, che però bastano a confutare una narrazione facile e schematica, che fa combaciare il tradizionalismo e la semplicità con una società più equa, più stabile e più solidale. Un parallelismo accattivante, ma mai esistito. Con buona pace dei nuovi intellettuali sovranisti. Hanno abilità nell’animare il dibattito. Ma di certo, non sono oracoli.




Giornalista, collaboratore del quotidiano 'Il Messaggero' di Roma

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