Aung San Suu Kyi, capo di Stato della
Birmania, è stata accusata di brogli elettorali, arrestata e quindi deposta da un golpe militare, avvenuto il
1° febbraio scorso. Tutti i poteri sono stati assunti dal
generale Min Aung Hlaing, comandante delle
forze armate del Paese asiatico, dando vita, di fatto, a un
regime militare. Le notizie diffuse
dall'esercito birmano parlano di
nuove elezioni, che dovrebbero avvenire al più presto per garantire i diritti costituzionali della popolazione, talmente fragili in questo momento in cui la democrazia sembra aver lasciato il posto alla dittatura. Nel frattempo, sia
l'Unione europea, sia gli
Stati Uniti hanno espresso preoccupazione per quanto accaduto, raccomandando il rispetto della democrazia. Le polemiche contro
Aung San Suu Kyi, iniziate da un paio di anni a questa parte, tracciano un ritratto contraddittorio del
premio Nobel per la Pace 1991. L'esperienza della repressione, di cui la stampa si occupò dal
1990 al
2010, anno della sua liberazione, venne subita attraverso gli arresti domiciliari - durati per anni - e il divieto di lasciare il Paese. Tuttavia, nonostante tutte le difficoltà a essa legate, nonché il suo ruolo di donna, politica e madre, che avrebbero dovuto favorire una maggior sensibilità al tema dei
diritti umani, la
ex premier è stata fortemente criticata per la gestione dei crimini commessi verso la popolazione
Rohingya, una minoranza etnica birmana. La
missione d'inchiesta internazionale indipendente delle
Nazioni Unite sul
Myanmar, costituita nel
2019, ha infatti dichiarato di aver scoperto che
“i soldati del Paese impiegavano sistematicamente, contro la minoranza musulmana Rohingya, stupri di gruppo e altri atti sessuali violenti e forzati, perpetrati verso donne, ragazze, ragazzi, uomini e persone transgender in palese violazione dei diritti umani internazionali”. Tutto si ripete, dunque. E la lista è lunga: basti ricordare la
guerra dei Balcani, o i più recenti crimini perpetrati dal
Daesh o da
Boko Haram. Oggi, gli
stupri sistematici e la
pulizia etnica vengono scoperti anche nel
Myanmar, laddove, per imporre il predominio di un gruppo, la violenza sessuale viene impiegata come
mezzo coercitivo o per incutere terrore, nonché per favorire le
gravidanze, che sono il mezzo più semplice per operare la
commistione razziale. Alla luce di ciò, quanto sta accadendo ai
Rohingya va inquadrato nei
crimini contro l’umanità e nelle
violazioni dei diritti umani. La
missione delle
Nazioni Unite, peraltro, aveva già documentato, in un precedente rapporto, altri gravi abusi, perpetrati a
Rakhine dal
2016 e altri episodi simili compiuti negli Stati di
Kachin e
Shan. La
violenza sessuale è diventata, insomma, il
‘segno distintivo’ delle operazioni militari in questi territori. Nonostante il rapporto della
missione Onu parlasse chiaro, il governo e le forze armate del
Myanmar hanno decisamente negato di aver compiuto violazioni dei diritti umani, affermando che le operazioni militari a
Rakhine erano giustificate e compiute in risposta agli attacchi degli
insorti Rohingya: “La violenza sessuale è il risultato di un problema più ampio di disuguaglianza di genere e totale mancanza dello Stato di diritto”, afferma il rapporto, rilanciato e approfondito da
Radhika Coomaraswamy, un avvocato dello
Sri Lanka che fa parte della triade di esperti internazionali della missione il quale, durante una conferenza stampa presso la sede delle
Nazioni Unite a
New York, ha dichiarato:
“Il quadro discriminatorio di leggi e pratiche, anche in tempo di pace, contribuisce e aggrava la violenza contro le donne in tempo di guerra”. Coomaraswamy ha inoltre ribadito la necessità di istituire un
“meccanismo internazionale”, come per esempio un
Tribunale internazionale, per processare autori e mandanti delle violenze. Il legale ha poi continuato denunciando
“l'uccisione diffusa e sistematica di donne e ragazze, la selezione attenta di donne e ragazze in età riproduttiva per lo stupro, gli attacchi a donne in gravidanza e a bambini, il marchio fisico lasciato sui loro corpi, che presentano segni di morsi su guance, collo, seno e gambe, oltre che ferite così gravi da menomare le vittime, non rendendole in grado di avere rapporti sessuali o di concepire, incutendo loro il timore che non sarebbero più in grado di avere figli. Tali violenze sono possibili solo in un clima di impunità di lunga data, in cui il personale militare non teme punizioni o azioni disciplinari. Quindi, nel caso dei Rohingya, riteniamo che la reale intenzione sia quella di distruggere la popolazione, per farla fuggire”. In risposta a tutto questo e a un altro rapporto della missione sui presunti responsabili delle attività militari delle forze armate, il
ministero degli Esteri del
Myanmar ha affermato che, stabilendo la missione conoscitiva, il
Consiglio per i diritti umani delle
Nazioni Unite “ha superato il suo mandato e ha violato i termini e le pratiche di legge. Non riconosciamo né la missione conoscitiva, né il rapporto che essa ha prodotto. Il governo del Myanmar”, ha aggiunto,
“respinge categoricamente l'ultimo rapporto e le sue conclusioni”. Anche
Papa Francesco, già nel
2017 aveva espresso vicinanza ai
Rohynga, chiedendo
“perdono a nome di tutti quelli che vi hanno perseguitato”. Calano le ombre sulla figura della
paladina per i diritti umani, che sembrerebbe non aver impedito una politica di
pulizia etnica da manuale.