Vittorio LussanaA 21 anni esatti dalla scomparsa, è profondamente sbagliato considerare Bettino Craxi come uno dei simboli dello statalismo burocratico della prima Repubblica. Al contrario, egli fu uno dei primissimi leader politici italiani a cogliere l’esigenza di una grande riforma strutturale dello Stato, fino a teorizzare un socialismo federalista in grado di contenere quelle spinte disgregatrici che hanno sempre attraversato il nostro Paese, con l’obiettivo di ridurre le gravi diseguaglianze tra nord e sud d’Italia. Nella riflessione ‘craxiana’, il federalismo non era una soluzione puramente demagogica o rivoluzionaria, bensì si imperniava su un pluralismo territoriale che affondava le proprie radici direttamente nel testamento politico di Pierre Joseph Proudhon del 1863, intitolato: 'Del principio federativo'. Un saggio in cui l’ideologo francese avvertiva come contraria all’ideale socialista ogni strutturazione centralizzata dello Stato. Si tratta di un’intuizione che, ripresa oggi, potrebbe svolgere una preziosa funzione di indirizzo verso il sentiero più corretto da percorrere, al fine di approdare a un’equilibrata riforma del nostro attuale ordinamento giuridico e della sua fonte superprimaria: la Costituzione del 1948. L’approccio di Craxi al federalismo era, dunque, di matrice schiettamente riformista, teso a evitare al Paese ogni suggestione o vagheggiamento secessionista. Il leader del Psi era infatti consapevole di come al Paese bastassero delle buone riforme, non stravolgimenti rivoluzionari: una serie di modifiche che servissero non solo a decentrare e a modernizzare uno Stato ormai inefficiente, ma a sbarrare altresì la strada a ogni velleità disgregativa. Stabilito ciò, diviene a questo punto necessario dolersi sinceramente per come la sua figura, umana e politica, abbia lasciato un vuoto incolmabile. In fin dei conti, dai primi anni ’90 del secolo scorso, poco o nulla é realmente mutato in Italia. E questa è forse la causa primaria del nostro lento, ma costante, declino: una tendenza che nessun Governo, di destra o di sinistra, progressista o conservatore, è riuscito a interrompere o a invertire stabilmente. In termini di diritto costituzionale, sostanzialmente 3 son sempre state le ipotesi federaliste al vaglio di studiosi o delle varie forze politiche: 1) quella ‘macroregionale’ di derivazione ‘leghista’, che ha sempre fatto leva su istinti localistici spesso irrazionali o immotivati; 2) quella, alquanto utopica, del professor Gianfranco Miglio, il quale, dopo interi decenni di ‘statolatrìa’, era rimasto folgorato dal federalismo ‘cantonale’ di matrice elvetica: un modello che, pur tendendo verso un esercizio diretto della democrazia, in realtà ha sempre denotato alcuni limiti di eccessivo frazionismo, che rischierebbero di ratificare quella nostra cultura identitaria basata su gonfaloni e campanili e, al contempo, tradirebbero una visione più assembleare che liberale, più vicina a Rousseau che a Voltaire o a Montesquieu; 3) la giusta ‘via di mezzo’ di una equilibrata riforma federale dello Stato e di una più confacente distinzione di funzioni tra i due rami del nostro parlamento, intervenendo con precisione chirurgica sul nostro ordinamento ma garantendo, altresì, allo Stato un potere più ‘leggero’ di coordinamento, coniugato a prevedibili esigenze di sussidiarietà. Una ‘diagnosi’, questa, che ci riporta direttamente al tema di una più corretta valutazione dell’operato politico di Bettino Craxi, della sua lucidità e della sua approfondita conoscenza di quelle dottrine politiche che sono realmente alla base delle nostre tradizioni culturali più autentiche.


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