A
21 anni esatti dalla scomparsa, è profondamente sbagliato considerare
Bettino Craxi come uno dei simboli dello statalismo burocratico della
prima Repubblica. Al contrario, egli fu uno dei primissimi leader politici italiani a cogliere l’esigenza di una
grande riforma strutturale dello Stato, fino a teorizzare un
socialismo federalista in grado di contenere quelle
spinte disgregatrici che hanno sempre attraversato il nostro Paese, con l’obiettivo di ridurre le gravi diseguaglianze tra
nord e
sud d’Italia. Nella
riflessione ‘craxiana’, il
federalismo non era una soluzione puramente
demagogica o
rivoluzionaria, bensì si imperniava su un
pluralismo territoriale che affondava le proprie radici direttamente nel testamento politico di
Pierre Joseph Proudhon del
1863, intitolato:
'Del principio federativo'. Un saggio in cui l’ideologo francese avvertiva come contraria all’ideale socialista ogni strutturazione
centralizzata dello Stato. Si tratta di un’intuizione che, ripresa oggi, potrebbe svolgere una preziosa funzione di
indirizzo verso il sentiero più corretto da percorrere, al fine di approdare a un’equilibrata
riforma del nostro attuale
ordinamento giuridico e della sua
fonte superprimaria: la
Costituzione del
1948. L’approccio di
Craxi al federalismo era, dunque, di matrice schiettamente
riformista, teso a evitare al Paese ogni suggestione o vagheggiamento
secessionista. Il leader del
Psi era infatti consapevole di come al Paese bastassero delle
buone riforme, non
stravolgimenti rivoluzionari: una serie di modifiche che servissero non solo a
decentrare e a
modernizzare uno Stato ormai
inefficiente, ma a sbarrare altresì la strada a ogni
velleità disgregativa. Stabilito ciò, diviene a questo punto necessario dolersi sinceramente per come la sua figura, umana e politica, abbia lasciato un
vuoto incolmabile. In fin dei conti, dai primi
anni ’90 del secolo scorso, poco o nulla é realmente mutato in
Italia. E questa è forse la causa primaria del nostro lento, ma costante,
declino: una tendenza che nessun Governo, di destra o di sinistra, progressista o conservatore, è riuscito a interrompere o a invertire stabilmente. In termini di diritto costituzionale, sostanzialmente
3 son sempre state le ipotesi federaliste al vaglio di studiosi o delle varie forze politiche:
1) quella
‘macroregionale’ di
derivazione ‘leghista’, che ha sempre fatto leva su
istinti localistici spesso irrazionali o immotivati;
2) quella, alquanto utopica, del professor
Gianfranco Miglio, il quale, dopo interi decenni di
‘statolatrìa’, era rimasto folgorato dal
federalismo ‘cantonale’ di matrice
elvetica: un modello che, pur tendendo verso un
esercizio diretto della
democrazia, in realtà ha sempre denotato alcuni limiti di eccessivo
frazionismo, che rischierebbero di ratificare quella nostra
cultura identitaria basata su
gonfaloni e
campanili e, al contempo, tradirebbero una visione più
assembleare che
liberale, più vicina a
Rousseau che a
Voltaire o a
Montesquieu; 3) la giusta
‘via di mezzo’ di una equilibrata
riforma federale dello Stato e di una più confacente
distinzione di funzioni tra i due rami del nostro
parlamento, intervenendo con precisione chirurgica sul nostro ordinamento ma garantendo, altresì, allo Stato un
potere più ‘leggero’ di coordinamento, coniugato a prevedibili esigenze di sussidiarietà. Una
‘diagnosi’, questa, che ci riporta direttamente al tema di una più corretta valutazione dell’operato politico di
Bettino Craxi, della sua
lucidità e della sua approfondita conoscenza di quelle
dottrine politiche che sono realmente alla base delle nostre
tradizioni culturali più autentiche.