Arturo Diaconale arrivò
all'Opinione come un fulmine. C'era una pattuglia di giovani giornalisti, in quel
'similgarage' di
via Leccosa, che era la sede del settimanale del
Partito liberale italiano, un po' frastornata. Alcuni, i più vecchi, erano rimasti all'era
'zanoniana-battistuzziana', o dei
lib di sinistra. Altri, i più giovani, si stavano facendo le prime esperienze di un giornalismo militante, senza un Partito in cui militare, distrutto da
Mani pulite e dal suo collateralismo al pentapartito. E la generazione di mezzo, i trentenni, erano risusciti ad accomodarsi nelle nascenti televisioni di informazione. Insomma
Beirut. Via Leccosa, la stessa strada del ristorante
'Due Ladroni', che però preferiva autocelebrarsi come residente a
piazza Nicosia, è una viuzza buia al centro di
Roma. La sede
dell'Opinione era talmente brutta, che la parola
understatment non convinceva. E quando
Diaconale ci mise per la prima volta piede, deve aver pensato che quello non poteva essere un posto per lui. Veniva dal
'Giornale' chic, ma certo non
radical, di
Montanelli, dagli studi all'epoca ricchi di
Studio Aperto. Diaconale non aveva il
'physique du role' per
via Leccosa. Garbato, sempre ben vestito. Non faceva parte di quella generazione per la quale la cravatta era un obbligo, ma il suo
conservatorismo abruzzese lo portava comunque a indossarla sempre. Mocassini scuri, cravatta, il golf sotto la giacca, quella parlata romana ma che non era nata a
Roma, e una bella faccia da attore sorridente e mai sguaiato. Il Partito gli aveva dato pochi mezzi e, sicuramente, uno stipendio contenuto.
Diaconale aveva sempre un progetto. Anche se non era realizzabile, lui aveva in testa un suo punto di arrivo. Non si chiama ambizione, ma a voler essere generosi, una
visione. Non facciamone una cosa troppo grossa. Ma si può dire che
Diaconale non era uno di quei giornalisti che si accontenta di prendere lo stipendio e svoltare la minestra, per quanto saporita possa essere. Pensava che domani sarebbe successo qualcosa. E che quel qualcosa lo avrebbe fatto lui. E
l'Opinione era un giocattolo che faceva al caso suo. Si presentò con un pensionato, delizioso e un giornalista economico arrogante. Niente di più. Prese l'ufficio della mitica
Rossana Livolsi, ruvida direttrice che ci ha cresciuti e capì subito che la distanza tra lui e la
'Panda' parcheggiata in strada, a meno di un metro dalla sua scrivania, non poteva continuare a lungo. Intanto, in
Italia era un
'casino': siamo negli anni a cavallo di
Mani pulite. E nel piccolo
Partito liberale era anche peggio: prima
De Lorenzo, poi
Bastianini, poi
Altissimo: nessuno sembrava salvarsi. Arrivò
Raffaele Costa, il destro di
Mondovì e la sua pattuglia di
liberali piemontesi, non alla
Zanone, più alla
Einaudi per intendersi. E
Diaconale cambiò il settimanale in quotidiano. Impresa difficile. La sede fu cambiata. Dalle saracinesche pian terreno si spostò pochi centinai di metri, percorrendo
via Ripetta, costeggiando il
Tartarughino di
Altissimo, passando il
Palazzo Borghese dove oltre alla
Caccia e ai
Principi c'era un favoloso negozio di tessuti, sfiorando la
camiceria Micocci e arrivando, finalmente, a
piazza san Lorenzo in lucina. Ecco, per dieci anni
Diaconale è stato quella piazza. La piazza del
giornale liberale, che ogni giorno sembrava potesse scomparire, ma che non è mai scomparso.
Diaconale aveva la redazione nel palazzo d'angolo,
vista Ciampini, ma la sua vita redazionale e sociale si è svolta in quella piazza.
Poi arrivò
Forza Italia e poi ci si ricordò che proprio lì affacciavano gli
uffici di Andreotti. Piazza San Lorenzo in Lucina, il buen retiro dei parlamentari offesi da
piazza di Pietra e annoiati da
piazza del Parlamento, è stato il
'salotto' di quella
romanità vagamente liberale, decisamente
di destra, che
Diaconale rappresentava alla perfezione. La sua storia e tradizione non era certo quella del
liberale classico, ma pochi come lui hanno assunto e coltivato
giovani ragazzi anarco-liberisti, oggi sparsi per il mondo.