Interessante la
diatriba giuridica esplosa alcune sere fa tra la politologa
Sofia Ventura e il giornalista
Marco Travaglio a
'8 e mezzo', in merito alla
decretazione d'urgenza e all'utilizzo dei relativi
decreti amministrativi. Il dilemma si è generato per il fatto che i
Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri, ndr) possano andare a ledere, temporaneamente e in casi limitati di necessità, le
libertà individuali dei cittadini. Un'antica querelle, su cui si è spesso pronunciata anche la
Corte costituzionale in anni lontani e su cui si sperava di non tornarci sopra, se non per rispolverare un antico
dibattito dottrinario. E' chiaro, infatti, che il
parlamento debba, ogni tanto, essere tenuto in considerazione, poiché non si può fare tutto attraverso dei
'regolamenti' come i
Dpcm, anche se essi si richiamano a una
norma giuridica o a un
atto avente forza di legge come il decreto vero e proprio. Tuttavia, il
Dpcm è un
atto amministrativo che risulta anch'esso
'fonte di diritto', pur se di livello inferiore rispetto alla
legge ordinaria. Esso trae i suoi
effetti concreti da una particolare circostanza, come previsto nei casi di
emergenza sanitaria, nello
stato di calamità nazionale o nello stesso
Stato di guerra, in caso d'invasione da parte di un esercito straniero. I
Dpcm, insomma, sono
giuridicamente legittimi, poiché possiedono una
giustificazione formale - il
decreto del
6 marzo 2020 - e una
sostanziale: debbono
incidere su una o più
condizioni particolari. In tal senso, anche
l'atto amministrativo di un
Comune 'terremotato' che impone la
'non agibilità' di un'abitazione gravemente lesionata dal sisma - costringendo i residenti a trasferirsi dai parenti, oppure ad accettare una sistemazione temporanea in albergo a spese dello Stato - possiede la possibilità di risultare
prioritario sulla
libertà privata del cittadino e, persino, sulla
proprietà privata. E' la tesi dl professor
Gustavo Zagrebelsky, che non a caso è un ex giudice della nostra
Corte Suprema. E per dimostrare che anche un
regolamento o
l'atto amministrativo in genere deve avere, in particolari circostanze, la possibilità di
dispiegare i suoi effetti, si ricorda che tale ragionamento vale persino per quegli
atti amministrativi di
'esproprio' che lo Stato o un ente locale - un
Comune o la
Regione - deve eseguire per questioni di
pubblica utilità (costruzioni di ferrovie o autostrade), pur prevedendo risarcimenti per chi è costretto a cedere un lotto o un terreno. Dispiace, dunque, per la signora
Sofia Ventura, la quale ha comunque avuto il merito di sollevare una questione su cui gli italiani non sono mai stati edotti o informati da nessuno, ma ha ragione
Marco Travaglio: negare all'atto amministrativo, in determinate circostante e ottenuto il voto formale del parlamento su un decreto originario, di
dispiegare i suoi effetti significa
impedire allo Stato di
"fare lo Stato" quando ciò si rende necessario, togliendo elasticità a tutto il nostro ordinamento. Siccome qui da noi è stata diffusa l'idea che lo
Stato sia sostanzialmente un
nemico - se non addirittura
"un aguzzino" - nei confronti dei cittadini, si finisce col contestargli anche la
possibilità d'intervenire in tempi rapidi quando esso, o un qualsiasi ente pubblico in generale,
è tenuto a farlo, poiché chiamato a svolgere esattamente la funzione per la quale è prevista l'esistenza stessa
dell'interesse pubblico, statale o nazionale che sia. Ecco per quale motivo siamo di fronte a un'evidente
distorsione democratica della nostra
classe politica: una parte di essa rimane abbarbicata al dogma:
"Io non la bevo", secondo una logica ancor più
materialista di quella degli
'italo-marxisti', semmai ne esistessero ancora a più di
30 anni dalla caduta del
muro di Berlino. Le nostre forze politiche proprio non riescono a
legittimarsi a vicenda nei loro rispettivi ruoli, di
governo o di
opposizione. Oltre a ciò, qui da noi vige una sorta di
'trionfo' della libertà privata e
personale, che arriva a pretendere di poter
resistere al diritto pubblico, giustificando i comportamenti più disdicevoli. Un'idea che, tuttavia, non è una accusa di
anarchia nei confronti degli italiani, bensì di
'accidia prelatizia' nei confronti di una
classe politica, quella
democristiana, che a lungo si è silenziosamente
disimpegnata dal trasmettere un minimo di
senso civico ai cittadini. Una lunga, lunghissima
ipocrisia, di cui soprattutto i
cattolici sono colpevoli. Il
senso civico degli italiani, infatti, è un
cardine culturale laico che è sempre appartenuto alla
classe liberale pre-fascista, alle idee di
socialismo democratico e liberale prima di
Giuseppe Saragat e, in seguito, di
Bettino Craxi e persino al
mondo comunista, se considerato
nell'ottica laica di giuristi come
Paolo Barile e
Stefano Rodotà. L'errore comunista fu, al contrario, quello di aver preferito
'amoreggiare' a lungo con il
mondo cattolico piuttosto che denunciare la scarsa volontà di quest'ultimo - con le sole eccezioni di
Aldo Moro, Guido Bodrato e pochi altri - nel fornire agli italiani quelle
basi culturali per l'assorbimento di quel
'senso dello Stato' che li aiutasse ad affrancarsi dal proprio
individualismo egoistico e
qualunquista. Lo scontro
'Ventura-Travaglio', insomma, ha evidenziato una
lacuna culturale profondissima, che per lungo tempo ha causato la
'non applicabilità' della nostra
Costituzione in senso pieno. Una
'scorrettezza' silenziosamente messa in atto dal lungo dominio
cattolico-democratico, il quale si è spesso dimostrato
molto cattolico, ma
assai poco democratico. Ed ecco anche spiegato per quale motivo, purtroppo, parte della nostra
borghesia laica, storicamente
sottorappresentata qui da noi, sia ancora oggi più abituata ad allearsi con
forze eversive e
menzognere, anziché decidersi ad aprire un
discorso ben più serio in merito ai
valori di fondo che dovrebbero innervare la nostra
dialettica politica quotidiana. Può darsi che si tratti di una sorta di
odio ideologico 'di ritorno', dopo i lunghi decenni di
'populismo di sinistra': il
"fascismo degli antifascisti", come lo aveva definito
Pier Paolo Pasolini. Ciò non toglie che risolta la questione della
'lotta di classe' da una parte, adesso ci si ritrovi di fronte alla
conflittualità dei qualunquisti dall'altra, disposti ad allearsi con le peggiori
'sette' del
cattolicesimo reazionario e
integrista, capace di escludere persino la
psicologia e la
psichiatria dal novero delle
scienze mediche e
sociali. Prima avevamo a che fare col
materialismo storico 'gramsciano'; oggi, dobbiamo impegnarci a contenere il
pragmatismo 'cronico' delle
destre: quel
conservatorismo 'statico' capace unicamente di teorizzare una
società immobile e perennemente
frenante.