Questo è il racconto di un'esperienza realmente
vissuta. Tutto ha avuto inizio qualche giorno fa, quando decido che, per ragioni familiari, devo fare il famoso
tampone per il
Covid 19. Lo decido autonomamente, perché sentita la mia versione dei fatti, il medico mi dice che
"non era necessario", che
"non ero a rischio", ma che se proprio volevo farlo non c'era altra via che segnalare la mia situazione alla
Asl. "Poco male", gli rispondo,
"faccia ciò che deve". Mi fido del suo parere, ma non posso assolutamente rischiare, con un
padre cardiopatico e una madre con una
trombosi alle gambe. Io stavo bene, non avevo sintomi particolari, ma a
un'ipocondriaca cronica come la sottoscritta, un po' di
ansia viene sempre. Soprattutto, perché era la prima volta che facevo un
tampone, da quando è iniziata questa brutta vicenda del
coronavirus. Ottenuta
l'impegnativa, mi metto in coda al
'drive in'. E qui inizia il dramma, quello dell'attesa:
10 interminabili ore in coda per fare un
tampone; 10 ore in cui le persone - per rabbia e sfinimento - quasi
vengono alle mani tra loro. Mi armo di santa pazienza e, finalmente, riesco a farlo. Mi chiedono se voglio fare il
tampone molecolare, ma rispondo di voler fare quello
rapido, perché ho
urgenza di sapere. Non tanto per me, ma per i miei cari.
"Sì, sì", mi rassicurano,
"riceverai una e-mail o un sms entro poche ore". Torno a casa stremata e un po' affranta per quanto visto nel pomeriggio: una moltitudine di persone in fila con soli
3 infermieri operativi. Una cinquantina di macchine che, dopo ore di attesa, si sono viste chiudere i cancelli
'in faccia'. Noi siamo stati
l'ultima autovettura a entrare nel parcheggio. E un poliziotto ci ha detto:
"Oggi, è come se aveste vinto al superenalotto". Davanti avevamo una coppia con
due bambine. La più piccola, di due anni e mezzo, aveva avuto un po' di
raffreddore, ma il medico l'ha mandata comunque a
fare il tampone, come da prassi. Era la seconda volta che tentavano: al primo tentativo, li
avevano mandati via perché era troppo tardi. Ho pensato al disagio di attendere per ore in macchina con dei
bambini piccoli. A casa, controllo costantemente il cellulare, aspettando
l'esito. Sono le
21.00 e non arriva niente. Forse è normale, dato l'orario:
"Arriverà domani", penso. La mattina dopo, al risveglio,
nessun messaggio. Si fanno le
10,00 e ancora
niente. Passano le ore e ancora
nulla. Arriva la sera:
niente di niente. Chiamo il
numero verde e mi spiegano che ci sono
ritardi indescrivibili. Si scusano e affermano che, sì, è
disumano far attendere le persone in questo modo. Si scusano ancora. Sono le
19,00 e mi convinco ad andare al
'drive in' per chiedere informazioni direttamente. Non dovrei uscire, ma se
Maometto non va dalla montagna, è la montagna che si deve muovere. Arrivo lì e, come prevedibile, mi mandano in un altro
presidio, dove potranno stamparmi gli esiti. Cerco sul
web e il centro risulta
chiuso. E torno a casa con un
'pugno di mosche'. Mi si prospetta un'altra serata di ansia e pensieri. Mi addormento nella speranza di ricevere un messaggio, mai arrivato. È
sabato. Mi sveglio, guardo il cellulare e ancora
nulla. Decido di andare alla
Asl. Al mio arrivo, trovio una serie di
persone in fila, tutte in attesa del
referto, alcune delle quali da circa
10 giorni. 10 giorni, ragazzi... Un distinto signore ci racconta di essere stato in
isolamento fiduciario oltre il dovuto, aspettando un risultato mai giunto a destinazione. Aveva deciso di
chiudersi in camera, per evitare ogni possibile contagio alla
figlia piccola, che ogni sera, dietro la porta, piange perché vuole
abbracciare il suo papà. Ora, però, era
stanco e aveva scelto di uscire come se niente fosse accaduto, vanificando il sacrificio di settimane. Finalmente, riesco a parlare con gli operatori, che recuperano
il mio referto. Mi dicono che il mio
indirizzo e-mail era stati scritto male.
L'sms, invece, non è stato
mai inviato. Mi inoltrano tutto, la
e-mail finalmente arriva e l'esito, per fortuna, è
negativo. Una vicenda simile alle tante che tutti, in questi giorni, hanno avuto modo di leggere o sentire per televisione. So perfettamente che dovrei sentirmi
grata e felice di questo
lieto fine. Ma proprio non riesco a sentirmi
sollevata, poiché penso anche a chi un
lieto fine non lo ha mai avuto. Penso che questo è solo il
primo 'cerchio' di un
'girone infernale', nel quale tutti possiamo cadere, prima o poi. E penso anche agli
infermieri, sconfortati e stanchi, vessati da una responsabilità talmente grande da renderli
irascibili e
scontrosi. E ai
poliziotti, impegnati tutti i giorni a
presidiare i 'drive in', spesso costretti a
negare tamponi a persone disperate, a incassare insulti e rabbia, a sostenere
accuse che non meritano affatto. E penso a te,
giovane o vecchio incosciente, che non metti la
mascherina e che te ne vai in giro come se nulla accada intorno a te, perché non hai la
minima idea del
'casino' che c'è negli
ospedali. E non ce la sentiamo proprio di
'cantare vittoria', perché l'insidia è sempre
dietro l'angolo. E solo il nostro
buon senso potrà salvarci.