Ogni anno, in
Italia e
all'estero, vengono organizzate esposizioni temporanee sui
'grandi' della
Storia dell'arte: da
Caravaggio fino a
Picasso, da
Frida Kahlo agli
impressionisti, tanto per citarne alcuni. Per non parlare delle mostre organizzate in occasione dei
centenari di nascita e morte dei
'grandi maestri', come nel caso della mostra celebrativa del
cinquecentenario della morte di
Raffaello, attualmente in corso a
Roma presso le
Scuderie del Quirinale. Ma da dove nasce questa prassi? E quali sono le problematiche connesse a tale fenomeno? Scopriamolo insieme.
"Può l'illuminazione concessa a innumerevoli visitatori in innumerevoli altre esposizioni in varie parti del mondo, giustificare la crescita incessante di una moda sulla quale, ritengo, dobbiamo nutrire seri dubbi? 'Chi può dirlo"? Con questo interrogativo si chiude il libro
'La nascita delle mostre. I dipinti degli antichi maestri e l'origine delle esposizioni d'arte' (Skira Edizioni) di
Francis Haskell, storico dell'arte inglese e docente
all'Università di Oxford dal
1967 al
1995. Il testo, edito per la prima volta vent'anni fa dopo la morte dello studioso, è quanto mai attuale per le questioni poste al lettore circa l'intensificarsi del fenomeno delle
mostre temporanee, particolarmente negli ultimi anni e i problemi connessi alla
promozione del nostro
patrimonio culturale nei musei. Se fosse ancora in vita,
Haskell avrebbe quasi sicuramente assunto posizioni simili a quelle ricoperte dal suo
'pupillo', lo storico
Tomaso Montanari, sul fenomeno delle
'mostre blockbuster'. Autore, insieme con
Vincenzo Trione, del pamphlet
'Contro le mostre' (Giulio Einaudi Editore - 2017), Montanari ha di recente sostenuto che
"gli ingredienti sono sempre gli stessi: Caravaggio e Leonardo, gli impressionisti, Van Gogh, Picasso, Dalí e Warhol. Ne facciamo circa diecimila l'anno, ma dovremmo avere seri dubbi su questa sarabanda. Innanzitutto, perché si tratta quasi sempre di puro intrattenimento: a pagamento e di bassa qualità. Quasi mai c'è dietro una ricerca originale e, quasi sempre, non c'è nulla da imparare: la verità è che privati senza scrupoli e pubbliche autorità senza un progetto mettono a rischio pezzi unici, spesso di valore altissimo. Dobbiamo riprendere a fare esposizioni serie, libere, educative. E c'è un'alternativa più radicale: rompere la gabbia degli eventi e rituffarci nel fitto contesto di arte e paesaggio che rende l'Italia unica al mondo. Riallacciare il passato al presente, attraverso una conoscenza vera e libera. Fuori dal mercato, nel cuore delle nostre città". Ad alimentare questo fenomeno, secondo
Montanari, sarebbero le
"società commerciali, curatori seriali, assessori senza bussola e direttori di musei asserviti alla politica che sfornano a getto continuo mostre di cassetta, culturalmente irrilevanti e pericolose per le opere. È ora di sviluppare anticorpi intellettuali, ricominciare a fare mostre serie, riscoprire il territorio italiano". Riflessioni, queste, che hanno condotto lo storico dell'arte a scagliarsi contro la decisione di far pervenire a
Roma, per la mostra su
Raffaello alle
Scuderie del Quirinale, il celebre
ritratto di Leone X e ad appoggiare le dimissioni in blocco del
comitato scientifico degli Uffizi, di cui lo stesso faceva parte. Ripercorriamo brevemente l'accaduto. Com'è noto,
Montanari, Levi, Moretti e
Pizzorusso avevano inserito quell'opera di
Raffaello tra quelle ritenute
"inamovibili" dal museo fiorentino. Il direttore,
Eike Dieter Schmidt, ha tuttavia acconsentito al prestito del ritratto per la
mostra romana. La questione è meritevole di approfondimento non tanto per la circostanza in sé, che potrebbe sembrare di
rilievo aneddotico, quanto piuttosto per le motivazioni utilizzate a sostegno di tale scelta. Il
direttore degli Uffizi ha infatti dichiarato:
"Rivendico pienamente il patriottismo di questa decisione, in difformità con quanto suggerito dal comitato consultivo delle Gallerie degli Uffizi: la grande mostra su Raffaello, un evento culturale epocale, che sarà uno dei grandi motivi di orgoglio dell'Italia nel mondo intero quest'anno, non poteva fare a meno del Leone X: un capolavoro che, tra l'altro, è in ottima salute e in perfetta condizione di viaggiare a Roma dopo esser stato restaurato dagli specialisti dell'opificio delle Pietre Dure. Gli Uffizi sono orgogliosi di aver potuto instaurare questa collaborazione straordinaria con il Quirinale e di poter contribuire, con tutte le nostre forze scientifiche e con una cinquantina di opere, a una esposizione che, già fin da ora, è destinata a entrare nella storia della museologia mondiale". Riecheggiano, nelle motivazioni di
Schmidt, parole ed espressioni quali
"orgoglio italiano", "storia della museologia mondiale", "evento culturale epocale", che non possono non richiamare alla mente i casi delle mostre ottocentesche e novecentesche studiate da
Francis Haskell vent'anni fa. Ma prima di trattarle brevemente è opportuno ricordare che, secondo lo studioso londinese,
"ogni esposizione di opere antiche è - ed è sempre stato, aggiungiamo noi -
il risultato di una serie di compromessi non previsti, di cui i visitatori restano di solito completamente all'oscuro. Si corre il rischio, perciò, di credere che la selezione di opere esposte in mostre di questo genere sia frutto di un'accurata pianificazione. Ogni storico coscienzioso si renderà conto di quanto un simile approccio sia fuorviante se applicato allo studio della guerra e della politica; si deve riconoscere che i progressi del gusto e dell'erudizione sono altrettanto soggetti all'imprevisto. Le brillanti, o quanto meno dignitose, intenzioni di ogni organizzatore di mostra sono sviate da gesti imprevisti di capricciosa vanità, acuta avidità e inflessibile cautela". Introducendo il lettore nella storia delle mostre a partire dalla
Roma del
XVII secolo fino agli
anni '30 del secolo scorso,
Haskell ha tracciato un interessante
'ponte' tra i processi espositivi del passato e del presente, dimostrando, in questo caso, che la
Storia è ciclica e tende a ripetersi nel tempo. Nessuna mostra, in effetti, è mai
fine a se stessa: non lo è mai stata, né mai lo sarà. Lo studioso ha dimostrato come, fin dal
Seicento, le esposizioni fossero state mosse da intenti di
"celebrazione e commercio". Se fosse la celebrazione di un santo, di una famiglia, di un sovrano, poco importa, ma erano questi i principali
moventi di una
rassegna, oltre alla volontà di orientare il gusto degli artisti contemporanei attraverso il confronto con gli antichi maestri. Inoltre, le esposizioni erano alimentate da
intenti commerciali e
celebrativi, ma anche da fenomeni di
'tributo e trionfo': la politica di
Napoleone Bonaparte, tra la fine del
Settecento e gli inizi
dell'Ottocento, ne costituisce un interessante esempio. Le opere razziate
dall'imperatore corso presero temporaneamente posto nel
Salon Carré del
Louvre. E
l'esempio parigino giocò un ruolo importante nella successiva organizzazione delle mostre in
Inghilterra, in particolare per quelle realizzate dalla
British Institution, mosse anche da un
fine didattico. Le opere venivano, infatti, messe a disposizione di artisti e studenti d'arte, ricercando l'obiettivo di
"innalzare la reputazione della scuola inglese", oppure di
"attirare l'attenzione sull'arte britannica, piuttosto che sulla quella straniera e contrapporre l'eccellenza genuina del moderno alle forme contraffatte della produzione antica". Nel
1815, nelle sale del
British Institution a
Pall Mall, furono esposte opere di
pittori olandesi e
fiamminghi, allo scopo di esortare il
'patriottismo' degli artisti inglesi attraverso i
'grandi esempi' del passato. A partire dagli
anni '60 del
XIX secolo, un'associazione di collezionisti e conoscitori di nuova fondazione - il
Burlington Fine Arts Club - si fece promotrice di una serie di esposizioni allestite nelle sale della
Royal Academy, presso il
Palazzo di Lord Burlington a
Piccadilly. Nacque, dunque, con loro, nel contesto inglese di
tardo Ottocento, la concezione delle
mostre odierne, caratterizzate da un
'comitato scientifico' che seleziona da diverse fonti le opere da esporre, in base anche al loro valore. Vi troviamo esplicitate tutte le dinamiche connesse al fenomeno delle mostre di antichi maestri attualmente in essere:
a) le lungaggini burocratiche connesse alle richieste di prestito;
b) i dinieghi per ragioni conservative;
c) le problematiche attributive;
d) la ricerca di prestigio da parte dei collezionisti che, per ragioni economiche e di mercato, desideravano che le loro opere fossero attribuite a un grande maestro e che, in quanto tali, risultassero nel catalogo. Contestualmente, si cominciò a considerare il pubblico generico, cui le mostre erano in effetti rivolte. Un passo avanti in termini di erudizione e didattica venne fatto dalla mostra intitolata
'Art Treasures of the United Kingdom', inaugurata a
Manchester nel
1857, basata ancora una volta sull'idea che i
'tesori d'arte' del
Regno Unito potessero surclassare quelli degli altri Paesi. È la prima esposizione in cui, al di là di ogni
intento economico e
nazionalistico, emerse apertamente la necessità di
"parlare all'opinione pubblica", attraverso allestimenti sistematici basati sull'organizzazione cronologica delle opere. Solo un movente educativo poteva giustificare richieste di prestito importanti. Gli organizzatori della mostra si interrogarono, inoltre, sui sussidi previsti per i
visitatori incolti, nell'ottica di uno sforzo per il superamento
dell'autocompiacimento dei musei che, oggi, a distanza di più di un secolo, è ancora purtroppo evidente in molte realtà italiane. A
Manchester, ancora non si fece abbastanza, ma per lo meno ci si domandò di cosa il pubblico avesse bisogno, arrivando a proporre anche strumenti interessanti, come gli
'opuscoli in dialetto' a buon mercato, che raccontassero le storie di un pubblico generico in visita alla mostra. Furono pensate anche delle
riduzioni del costo del biglietto e delle offerte per
viaggiare a poco prezzo. La mostra ebbe una risonanza enorme anche in
America, dove (forse non a caso) si sviluppò prestissimo quest'idea di una
'valenza sociale' del museo e delle esposizioni temporanee, in cui il pubblico fosse posto al centro di ogni riflessione. Veniamo, infine, all'ultimo grande tema del libro di
Haskell, forse quello più attuale: il rapporto tra
'nazionalismo ed esposizioni', diventato sempre più stretto a partire dalla fine del
XIX secolo. A esso si riconnettono tutte le mostre celebrative dei
centenari di nascita e morte di grandi artisti del passato, compresa quella su
Raffaello attualmente organizzata presso le
Scuderie del Quirinale. È giusto rilevare come, a distanza di secoli, le problematiche siano sempre le stesse:
1) glorificare un artista;
2) magnificare un Paese;
3) dare un impulso agli studi di settore; attirare il pubblico, o educarlo che dir si voglia. Il tutto ricreando un
evento epocale, pensato con una serie di
'eventi-satellite' (conferenze stampa, concerti, spettacoli, perfino banchetti). Dalla mostra su
Michelangelo Buonarroti tenutasi a
Firenze nel
1875 per commemorarne la nascita, alla mostra su
Rubens ad
Anversa nel
1877, fino ancora a quella su
Rembrandt ad
Amsterdam nel
1898, campione di incassi, molti sono gli esempi forniti in tal senso. Il fenomeno si amplificò a seguito della prima guerra mondiale, quando mostre dal carattere nazionale vennero esportate in altri Paesi. Tra queste, l'esposizione sui
maestri italiani, organizzata a
Londra nel
1930, dal titolo:
'Italian art 1200-1900'. Arrivarono a
Londra i più grandi capolavori
dell'arte rinascimentale italiana, nonostante le rimostranze di molti circa il pericolo dei trasporti e la vulnerabilità delle opere.
Mussolini, tra i sostenitori dell'evento, ne uscì nauseato, poiché dovette superare l'opposizione di tutte le
autorità italiane (e non solo) del
campo artistico. La mostra aprì nel
gennaio 1930 e attirò tantissime persone. Ma quell'esposizione offrì l'occasione per promuovere il
concetto di italianità: un qualcosa che, dopotutto, non è poi così distante dai propositi delle grandi mostre di oggi. Certo, gli scenari politici sono mutati sensibilmente. Nelle parole di
Montanari, tuttavia, non possiamo non riscontrare gli echi del pensiero di
Haskell e, in definitiva, di storici dell'arte come
Roberto Longhi, che in un convegno del
1959, pur dicendosi favorevole alle esposizioni, metteva in evidenza la minaccia sottesa all'organizzazione di eventi internazionali nati, essenzialmente, a scopo commerciale, dunque in grado di minare il
"benessere dei musei". Ma se
Longhi auspicava il ripristino di un senso di responsabilità nei confronti del nostro patrimonio culturale,
Haskell, qualche decennio più tardi, metteva in guardia gli studiosi dall'idea di un museo il cui successo fosse basato essenzialmente sulla
"pubblicità che solo l'inaugurazione di nuove sale o l'organizzazione di mostre temporanee possono generare". Lo studioso aggiungeva che
"acquisire spazi e mezzi per realizzare tali esposizioni è il primo rimedio prescritto alle istituzioni languenti e impoverite", introducendo il concetto di
'mercificazione dell'arte' tanto caro a
Montanari. Ci chiediamo, a tal proposito, cosa avrebbe pensato
Haskell della recente vicenda che ha visto coinvolti
Chiara Ferragni e le
Gallerie degli Uffizi. E, più in generale, cosa penserebbe delle politiche di promozione adottate (o meno) negli ultimi anni da molti musei italiani e internazionali. I temi di fondo sembrerebbero essere sempre gli stessi:
fare pubblicità al museo; richiamare il
pubblico; avvicinare
nuovi utenti interessati; 'educare', mediare l'arte, i
giovani. C'è in verità una piccola differenza. Se in tempi passati, si preferiva attirare il pubblico puntando sul prestigio dei
grandi capolavori, esibiti in occasione di
mostre temporanee, negli ultimi anni le operazioni di
marketing o, per utilizzare termini più sofisticati, di
'audience development' e
'audience engagement' sembrerebbero essere orientate anche al coinvolgimento di
'gente viva', personaggi più o meno famosi come
attori, calciatori e
influencer. Oggi, il
'divino Raffaello' ha ceduto il passo alla
'dea Ferragni', che con i suoi
milioni di follower è assurta a nuova
divinità contemporanea nell'era dei
social. Ma non è questo il punto, così ovvio in fondo se si guarda al nostro
scenario socio-culturale. Il punto è che, nei
commenti della stampa a queste operazioni ricorrono spesso
espressioni vetuste, che rimandano agli esempi citati da
Haskell per eventi accaduti più di un secolo fa: si parla di
"sponsorizzazioni della nostra cultura all'estero", di operazioni volte a
richiamare i turisti nelle nostre città, di
"patriottismo", di
preminenza della
"cultura artistica italiana nel mondo". Ed è impossibile non ripensare ai commenti della
stampa ottocentesca sulle mostre degli antichi maestri, pensate per attrarre il pubblico, educare i giovani e dare prestigio alle diverse nazioni. Alcune di queste esposizioni
passarono alla Storia, divenendo
'immortali', proprio per le
cattive recensioni ricevute e per le
parole caustiche di
insigni storici dell'arte che, nei loro
pamphlet e nei loro
articoli, scritti per mettere in luce le proprie capacità di studiosi, hanno letteralmente
schernito e
demolito tali operazioni di
promozione artistica. Non è escluso che ciò possa accadere anche con la
'Venere' del
Botticelli: chissà se, in un lontano futuro, essa potrà essere ricordata non solo per il suo indiscusso
valore storico-artistico, ma per esser stata oggetto di una
'querelle' tra
studiosi e
direttori di museo sul
giusto modo di fare
promozione, oggi, nei
musei.