La notizia recentemente giunta dal
Caucaso, relativa a una ripresa delle ostilità tra
l'Armenia e
l'Azerbaijan per il conteso territorio del
Nagorno Karabagh, colpisce ma non ci sorprende. E' lo stesso copione che guida insistentemente lo svolgimento di questo conflitto, con ripetuti tentativi di guerra dopo, ammettiamolo pure, il fallimento della mediazione internazionale condotta in primis
dall'Osce con il
Gruppo di Minsk. L'aggressione, infatti, consumatasi domenica
12 luglio direttamente al confine tra i due Paesi, tra le località di
Tavush in
Armenia e
Tovuz in
Azerbaijan, peraltro reciprocamente contestata con rimbalzo di responsabilità da parte dei due governi, conferma ancora una volta lo
'stallo tecnico' del processo di pacificazione, avviato senza successo da oltre vent'anni in seno
all'Osce. Un processo, questo, che non riesce a focalizzare, né tantomeno a far riconoscere, il
vizio primigenio di una mediazione fondata sulla inconciliabilità di due principi internazionali fondamentali: da un lato,
l'integrità territoriale degli Stati, sostenuto da
Baku; dall'altro, quello
dell'autodeterminazione dei popoli, voluto da
Yerevan. Per fare il punto sulla situazione, risulta superfluo, oggi, ricapitolare tutta la storica vicenda dei rapporti tra
Armenia e
Azerbaijan per il controllo del
Nagorno Karabagh: un territorio originariamente
armeno, popolato essenzialmente da
armeni. Basti tuttavia osservare, per obiettività di cronaca, come la conquista di una propria sovranità e indipendenza sia stato l'obiettivo dichiarato e conseguito da tutte quelle
Repubbliche ex sovietiche e dalle regioni a queste interne con vocazioni autonomistiche, come il
Karabagh, che all'indomani della dissoluzione
dell'Urss hanno intrapreso la via dell'indipendenza in virtù della legge sovietica sulla
'Secessione degli Stati' approvata dal
Soviet Supremo dell'Urss il
3 aprile del
1990. Un diritto, quello sancito da quella legge, di cui si è naturalmente avvalso
l'Azerbaijan per proclamarsi indipendente, senza, per contro, che venisse riconosciuto lo stesso diritto al territorio autonomo del
Karabagh. Ecco, in estrema sintesi e al di là di considerazioni surrettizie e pretestuose, il vero oggetto del contendere. Ma i governi e i circoli politici, interessati più alle
fonti energetiche dell'Azerbaijan che al riconoscimento dei valori di libertà, dimenticano molto spesso che l'affermarsi di un mondo prevalentemente libero sia stato possibile, negli ultimi
70 anni, solo grazie a quel principio di
autodeterminazione dei popoli di cui proprio le
Nazioni Unite si sono fatte paladine per affrancare dal
colonialismo interi continenti. In questo quadro internazionale, sorprende come proprio le
Nazioni Unite abbiano adottato, sul
Karabagh, le
Risoluzioni del 1993 e, più recentemente, la
n. 62/243 del 2008 (peraltro rigettata dai mediatori dello stesso
Gruppo di Minsk), in totale disprezzo di ogni imparziale, quanto obiettiva, valutazione di quel
principio di libertà tanto sbandierato dalla medesima
Organizzazione per oltre mezzo secolo. Evidentemente, la memoria è
'corta', in certi casi. E a fronte della determinata volontà del popolo armeno del
Karabagh ci si ostina, ancor oggi, a non riconoscere le
storiche verità, vedendo addirittura nell'indipendenza del
Kosovo, secondo qualcuno, un pericolosissimo
precedente per la minaccia alla
integrità territoriale degli
Stati. L'esasperazione del
popolo armeno è alta di fronte a simili episodi di guerra, che ormai si ripetono con ricorrenza. E se, da una lato, il prolungarsi di una situazione di
stallo nel processo di pace non giova di certo
all'Armenia, che rischia, per la pubblica opinione, di vedersi trasformare e capovolgere la sua linea di difesa addirittura in
aggressione, dall'altro si dovrebbe, da parte di tutti i
governi occidentali ed
europei interessarsi più da vicino all'evolversi di questa
'crisi caucasica', onde evitare che
l'Armenia, messa alle strette da aggressioni portate direttamente sul suo stesso territorio e con vittime civili, come è stato il caso coi fatti del
12 aprile scorso, reagisca mutando con la forza, ancora una volta, i confini in un'area particolarmente strategica per
l'Europa, per via del transito di importantissime
condotte energetiche. La
Storia dell'umanità, come ben sappiamo, è stata segnata da un continuo mutamento dei
confini: guerre, rivoluzioni, rivolte e insurrezioni hanno sempre puntato a cambiare, a seconda degli interessi in gioco, le
frontiere tra le nazioni. Ma il fine ultimo dei tanto invocati
processi di libertà non è mai cambiato. E' stato, invece, sempre lo stesso: conseguire una propria
autonomia e una
sovrana indipendenza. Ecco, dunque, che la questione del
Nagorno Karabagh, a distanza ormai di oltre un ventennio dallo scoppio della guerra, ci ripropone in tutta la sua drammaticità il dilemma di quale
principio debba
sacrificarsi e quale debba
prevalere. Per noi, non c'è dubbio alcuno: sono i
confini a essere
al servizio dei popoli e non il contrario.