Il
28 maggio scorso, è ricorso il
40esimo anniversario dell'assassinio del giornalista
Walter Tobagi, ucciso a
Milano nel
1980 dai terroristi della
'Brigata XXVIII marzo', aspiranti
brigatisti rossi, alcuni dei quali, tra cui lo stesso leader del gruppo,
Marco Barbone, provenienti dagli ambienti della
'Milano bene', o da famiglie con tanto di cameriere di colore in casa.
Tobagi, giornalista, già redattore de
l'Avanti! poi passato ad
Avvenire e, dal
1972, al
'Corriere della sera', era un giovane professionista dell'informazione.
Umbro di origini, ma trapiantato nel capoluogo meneghino, pagò con la vita, a soli
33 anni, il suo impegno per un
giornalismo di
sinistra democratica, che non avesse paura di
'ficcare il naso' nell'album di famiglia della stessa
sinistra, politica e sindacale. Aveva collaborato anche con
Luciano Pellicani, negli
anni '70 del secolo scorso, al suo primo incarico come direttore di
'Mondoperaio': uno dei primi sociologi a capire la logica profondamente
reazionaria e
'stalinista', del
terrorismo rosso. Nel libro
'Vivere e morire da giudice a Milano', Tobagi aveva raccontato la storia del giudice
Emilio Alessandrini, assassinato a
36 anni, nel gennaio del
1979, dai terroristi di
Prima Linea: un magistrato distintosi nelle indagini sui gruppi
estremisti di destra e, successivamente, su quelli di
estrema sinistra. Aveva osservato, inoltre, che i terroristi - proprio come già nella
Russia zarista e, in quegli stessi
anni '70, nella
Germania ovest percorsa dagli estremisti della
Raf - prendevano di mira soprattutto i
riformisti, condividendo il giudizio che lo stesso
Alessandrini aveva espresso, prima di morire, in un'intervista a
l'Avanti!: "Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società". Una fotografia lucidissima, tragicamente confermata proprio dall'assassinio di
Tobagi, il quale, la sera prima di essere assassinato, il
27 maggio 1980, aveva presieduto un incontro al
Circolo della stampa di
Milano, in cui si era discusso del caso del giornalista del
'Messaggero', Fabio Isman, incarcerato per aver pubblicato un documento sul terrorismo ancora coperto, secondo la magistratura, dal
segreto istruttorio. Si trattava dei verbali di alcuni interrogatori di
Patrizio Peci, il
brigatista rosso pentito. Storicamente, il secondo caso dopo quello di
Carlo Fioroni nel
1978. Il tema era quello, dunque, della
libertà di stampa e della
responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle
bande terroristiche. Il dibattito fu piuttosto agitato e Tobagi, che allora era presidente
dell'Associazione lombarda giornalisti - nata da una scissione del precedente organismo sindacale della stampa lombarda, largamente egemonizzato dal
Pci - fu oggetto di
ripetute aggressioni verbali da parte, soprattutto, dei colleghi di area
filocomunista. Ma anche da morto, dopo il vile attentato subìto il
28 maggio, poco dopo le
11 del mattino (circostanze che richiamano subito in mente quelle del
delitto Calabresi, di
8 anni precedente, maturato anch'esso nell'area dell'estrema sinistra),
Tobagi non avrebbe avuto pace. Il processo per la sua morte, tenutosi nel
1983, ha rappresentato,
9 anni prima di
'Mani pulite', la prima occasione di rottura tra la
Procura di Milano e il
Partito socialista italiano. Perché? Perchè a intervenire polemicamente, in occasione del processo, in sostegno anche all'allora segretario milanese del
Psi, Ugo Finetti, fu proprio il segretario nazionale del Partito,
Bettino Craxi, che non credeva alla
versione dei terroristi - fatta singolarmente propria, in aula, dalla stessa accusa - che non vi fossero, per il
delitto Tobagi, mandanti insospettabili di
alto livello, mentre già
3 anni prima, lo stesso generale dei Carabinieri,
Carlo Alberto Dalla Chiesa, in un'intervista a
'Panorama', rilasciata il
22 settembre 1980 - tre giorni prima dell'arresto di
Marco Barbone, leader del gruppo responsabile della morte di
Tobagi - aveva accennato all'assassinio del giornalista affermando, esplosivamente, che
"vi erano sostenitori della Brigata XXVIII marzo anche tra i giornalisti". Se siamo tornati, oggi, sul
caso Tobagi, non è solo per il
40esimo anniversario del suo
assassinio. A gennaio scorso, infatti, c'è stato il singolare, anche se parziale, epilogo della vicenda, poiché la
Corte europea dei diritti umani ha ritenuto
l'Italia colpevole per violazione del diritto alla libertà d'espressione del giornalista
Renzo Magosso, che aveva conosciuto
Tobagi proprio
all'Avanti!, il quale, nel
2007, è stato condannato a una pena pecuniaria dal
Tribunale di Monza per aver pubblicato, il
17 giugno 2004, sul settimanale
'Gente', allora diretto da
Umberto Brindani, un'intervista all'ex brigadiere dei Carabinieri,
Dario Covolo, che aveva raccontato particolari inediti sull'omicidio di
Walter Tobagi. Nell'intervista, infatti, l'ex sottoufficiale dichiarava di aver avvertito
sei mesi prima i suoi superiori che alcuni terroristi della
'Brigata XXVIII marzo', già alla fine del
1979 stavano progettando il delitto. Il mese scorso, la sentenza di gennaio della
Corte europea dei diritti umani è diventata esecutiva, condannando lo
Stato italiano a risarcire il giornalista
Magosso per il danno subito. Ma già molti anni fa, nel
1983, l'Avanti! aveva scritto le stesse cose. E cioè che, presumibilmente, tra la fine del
1979 e i primissimi mesi del
1980, era stata nascosta un'informativa, raccolta dai
Carabinieri attraverso un loro confidente, in cui si preannunciava l'obiettivo di assassinare
Tobagi e si fornivano gli elementi per individuare i responsabili del piano. I giornalisti e i parlamentari socialisti, nel rendere nota l'informativa, sottolinearono che, se fosse stata utilizzata,
Tobagi avrebbe potuto essere
protetto, evitando il suo
ingiusto destino, ma per questo furono condannati dalla magistratura.
Bettino Craxi espresse loro solidarietà e, nel dicembre
1985, il
Consiglio superiore della magistratura fu immediatamente convocato per censurarlo, ma il presidente della Repubblica dell'epoca,
Francesco Cossiga, si oppose. E tutti i membri togati del
Consiglio presentarono, per protesta, le loro dimissioni (poi ritirate): fu il più grave
conflitto istituzionale mai avvenuto riguardante la giustizia.
"Non è ormai più possibile fare quella che ritenevamo giustizia", hanno scritto di recente, su
l'Avanti!, Enzo Maraio, segretario nazionale del
Psi, Luigi Covatta, direttore di
'Mondoperaio' e
Mauro Del Bue, direttore di
'Avantionline', "ma la verità può essere ristabilita. Ci sembra perciò doveroso trarre tutte le conseguenze morali, politiche e giuridiche della sentenza della Corte di Giustizia europea, specialmente in un momento in cui la questione del Csm, come nel lontano 1985, torna di bruciante attualità". Lo stesso
Riccardo Nencini, senatore socialista, ha annunciato la prossima presentazione di un'interrogazione parlamentare al ministro degli Interni,
Luciana Lamorgese, sul
caso Tobagi. Un giornalista che, proprio come accaduto in seguito a
Carlo Alberto Dalla Chiesa, andava
protetto e non abbandonato
nell'isolamento. Così come doveva essere
protetto lo stesso
Aldo Moro, che il
15 marzo 1978, esattamente il giorno precedente l'agguato di
via Mario Fani, aveva telefonato alla
Questura di Roma chiedendo - nel clima rovente del terrorismo e delle polemiche per la nascita, da lui caldeggiata, del primo governo con il
Pci nella maggioranza parlamentare - un
rafforzamento delle
misure per la sua sicurezza.
Perché furono lasciati tutti e 3 così soli?