Valentina CirilliIntervista alla direttrice artistica della compagnia 'Cnt-Teatrocittà', una delle numerose realtà romane indipendenti le cui richieste di sostegno durante l'emergenza da coronavirus sono rimaste inascoltate

Nella lunga lista di operatori dello spettacolo dal vivo, che nella loro battaglia quotidiana per la sopravvivenza si sono sentite escluse dai provvedimenti di emergenza per il Covid-19 emanati dal Governo Conte, c'è la realtà complessa delle piccole esperienze indipendenti. Una scena fatta di 'organismi' che viaggiano su circuiti alternativi per tematiche, poetiche e scelte identitarie, nell'attesa, in alcuni casi, di poter entrare nei meccanismi produttivi e stabili dei più affermati teatri nazionali e centri di produzione. Sono tante le compagnie del cosiddetto 'teatro Off', quel flusso di esperienze così vitale ed eclettico, sfuggente a una precisa etichetta, tagliato fuori dal finanziamento pubblico. Il 'teatro Off', infatti, nelle tournée, nelle rassegne autofinanziate e negli spazi autogestiti, vede i suoi artisti dividersi entrate che spesso non raggiungono nemmeno la metà di quelle di una compagnia dai grandi teatri stabili. Risulta, dunque, molto difficile far rientrare questa categoria artistica nei criteri espressi dai provvedimenti per il sostegno del settore culturale, basati sul conteggio di un numero minimo di giornate contributive assai difficile da ottenere. La polemica, più volte sollevata da molti esponenti dello spettacolo dal vivo, riguarda l'impossibilità di poter andare in aiuto a un sistema malato e vizioso, che vede da decenni difficoltà, punti oscuri da correggere e ripensare tramite i principi della legalità e della regolarità fiscale messe in atto dai decreti. Le logiche di sfruttamento, del pagamento in 'nero', dell'intermittenza regolata dai contratti di prestazione occasionale (questi ultimi neanche menzionati dalle attuali normative) a cui la maggior parte della categoria di lavoratori è costretta, non rappresenta un caso di eccezionalità, bensì una condizione di banale normalità. Una normalità illegale, che le misure di intervento a sostegno del settore non tengono minimamente in conto. A sperimentare le tante contraddizioni di una situazione tanto difficile vi è la compagnia 'Cnt-Teatrocittà', fondata dall'attrice-regista Patrizia Schiavo. Una realtà indipendente, che si costituisce nel 2014, a Roma, all'interno di un progetto di riqualificazione di un quartiere degradato, alle spalle degli studi di Cinecittà. Tra il 2014 e il 2016, il Cnt ha trasformato un locale del Comune di Roma abbandonato e adibito a discarica, in uno spazio culturale: 'TeatroCittà - Centro di formazione e ricerca', aperto alle realtà del territorio attraverso laboratori, rassegne teatrali, documentari, incontri tematici e contest. Nell'intervista che segue, Patrizia Schiavo ci mostra il suo punto di vista sulle difficoltà date da questo tragico momento storico e sulle modalità di gestione dell'emergenza da parte dello Stato.

Patrizia Schiavo, la sua compagnia teatrale, la 'Cnt-TeatroCittà, come ha attraversato questa terribile fase di quarantena generata dal Covid-19?
"Come fossimo braccianti, colf e badanti del teatro italiano. Perché noi siamo 'Off' - o per meglio dire 'Out'. Fuori: fuori dal teatro, dal Fus, dall'Extra-Fus, dai bonus e da ogni ammortizzatore sociale. Una realtà comune per migliaia di noi. Finora, abbiamo contato, a causa delle trappole burocratiche, unicamente sulle nostre forze, sulla nostra autonoma capacità di rigenerarci, mettendo a servizio delle produzioni le entrate del teatro, dei laboratori e dei progetti per le scuole: silenziose 'formiche operaie', che mutano in 'cicale canterine' appena la stagione è propizia. Il Covid-19 ha ovviamente fermato tutto: laboratori, saggi, scuole e vari progetti, tra i quali un adattamento tratto dal celebre romanzo di Fabio Geda, 'Nel mare ci sono i coccodrilli', la storia vera di Enaiatollah Akbari. In più, anche la quarta edizione del nostro contest di danza contemporanea 'Corpo Mobile', ormai noto in tutta la capitale. In questi giorni, inoltre, avremmo dovuto debuttare all'Off/Off Theatre di via Giulia, a Roma, con la versione integrale e l'intero cast de 'Il laboratorio del pene, per umani migliori', che prosegue il percorso sul tema della violenza iniziato con 'Il Laboratorio della Vagina', sulla spinta dell'urgenza sociale e anche del consenso ricevuto. Un progetto che vuol dare ascolto e voce a una comunità, mescolando il basso e l'alto, il serio e il faceto, come utopia di trasformazione sociale. Una visione del teatro, quella della nostra compagnia, come strumento di consapevolezza e rivoluzione in quanto sguardo, visione, voce, istanza critica, specchio della società. Saremmo andati in scena dopo un lavoro di ricerca attraverso sondaggi, interviste, laboratori, gestazione del testo, realizzazione di contributi-video e dopo la costruzione del primo studio per il Fringe. Naturalmente, siamo stati costretti a dover sottopagare in 'nero' gli attori per le prove, non certo per volontà di adeguamento al malcostume generale e alla politica di sfruttamento, ma nell'attesa fiduciosa di poterci regolarizzare tutti, prima o poi, in virtù dell'esito positivo di qualche bando che non premi solo amici, congiunti e teatri stabili. Spesso, badanti e colf rinunciano volontariamente ai contributi per avere soldi da spedire alle famiglie dei Paesi d'origine; alcuni di noi, invece, ci rinunciano per la paura di perdere il lavoro, altri per leggerezza, perché vanità e narcisismo vincono sulla preoccupazione per la pensione; altri ancora ci rinunciano, per permettersi il lusso di finanziare l'espressione di un pensiero, un sogno, una denuncia. La convinzione, l'illusione o l'arroganza di sentirci utili ci spinge ogni volta ad affrontare una nuova guerra. E poco importa se abbiamo munizioni sufficienti per difendere noi, il nostro lavoro e i nostri diritti. Si parte per 'missioni' rese possibili dalla passione, dall'amore per questo mestiere, dalla speranza di toccare un cuore o scuotere una coscienza. L'entità della missione e i suoi costi non sono quantificabili: non c'è 30, 60, 90 che tenga. Chi vive il nostro mestiere in questo modo lo sa bene. Altri di noi, più dipendenti dalla 'chiamata', si sentono come poveri braccianti che, senza permesso di soggiorno, non possono neanche raccogliere pomodori, ma il lavoro dell'artista in ogni sua declinazione non può essere quantificato, equiparato a una merce, ridotto a numeri. Se solo questo ci resta, significa che ha perso il suo valore più profondo, la sua dignità e la sua necessità".

Qual è il giudizio sulle misure pensate dal Governo per andare in soccorso ai soggetti operanti nel mondo dello spettacolo e quali ulteriori richieste la vostra categoria, il teatro Off, si sentirebbe di fare?
"Le misure, soprattutto nella fase iniziale, non hanno tenuto conto delle atipicità della nostra categoria. Aver ridotto da trenta a sette le giornate contributive dei lavoratori autonomi necessarie a ricevere il contributo è un grande passo avanti, anche se ritengo fosse più giusto guardare lo 'storico' dei contributi versati e non solo quelli del 2019. Le prestazioni occasionali con ritenuta d'acconto non sono contemplate. Le misure e i criteri sarebbero giusti se fosse giusto il sistema. Alle compagnie è stato concesso il contributo sulla base di almeno 45 giornate contributive (giornate che vanno a coprire solo le prove di uno spettacolo): sarebbe un grande aiuto se solo la nostra categoria non fosse piena di 'missionari' dell'arte o di gente che lavora in 'nero' semplicemente perché non vuole rendere conto a nessuno, (il fatto che nessuno ne chieda conto, equivale a non esistere...). È un sistema malato: trovo giusta la protesta per far correggere il tiro, ma dobbiamo anche renderci conto che se abbiamo lavorato e non abbiamo versato contributi, oppure abbiamo permesso che altri non ce li versassero, siamo tutti responsabili. Le energie andrebbero ora indirizzate a modificare il sistema: senza finanziamenti ci si sente autorizzati a non avere oneri, anche se ciò va a scapito del nostro futuro, che oggi diventa il nostro presente. È un circolo vizioso, dal quale dobbiamo uscire. I finanziamenti maggiori sono spesso destinati a coloro che dichiarano di fare (o di spendere) di più, che non sempre equivale all'attività e alla spesa effettivamente fatta; si foraggiano i grandi centri di produzione, chiusi ai piccoli e preziosi presidi culturali; si fanno tagli a chi non merita o a chi, spesso, ha una storia alle spalle, ma è inadempiente per la perversa logica della produttività. Oppure, si continua a sostenere, senza concedersi il beneficio del dubbio, chi non ha più molto da dire, ma è entrato ormai nell'universo degli 'Intoccabili'. Sarebbe bello veder realizzate le azioni espresse nella 'Risoluzione unitaria' sul sostegno al settore cultura del 4 maggio: un provvedimento che potrebbe riguardare luoghi come Teatrocittà".

Qual è il suo punto di vista sulla ripresa dei teatri, le tempistiche e le modalità da adottare per preservare la sicurezza del pubblico e lo svolgimento delle normali attività di spettacolo?
"Sono disorientata, combattuta tra la spinta ad aprire il confronto, esprimere le idee, le paure, i 'rospi' che ci siamo tenuti dentro in questi giorni, affermando il nostro bisogno di esistere e la consapevolezza che la nostra è una realtà fragile, isolata, lontana. L'utopica ipotesi di Gabriele Vacis è accattivante, ma può funzionare solo per i teatri nazionali, i grossi centri di produzione, per chi ha finanziamenti, affetti e risorse stabili. Lo stesso vale per la suggestiva e altrettanto appassionata e motivata ipotesi di Stefano Massini riguardo al riaprire i teatri allo stesso modo delle chiese e i luoghi di culto. Ma per realtà come quella del Teatrocittà, nella migliore delle ipotesi si potrà solo continuare a lavorare gratis per progettare il futuro. Non essendo giuridicamente un'impresa, dovremmo autofinanziare sanificazioni, presidi sanitari e varie misura di sicurezza. Pur lasciando ai commercianti i calcoli numerici circa la convenienza di queste operazioni, pur sottostando alla riduzione della capienza della sala in base ai provvedimenti, rimane il problema degli attori. Dovremmo selezionarli all'interno di qualche rara specie di 'highlander'? E se non volessimo prendere in considerazione i monologhi, come potremo pensare di portarli in scena? Impalati, a distanza di un metro gli uni dagli altri, con guanti e mascherine a recitare salmi, o 'La Divina Commedia' o, meglio ancora, 'La peste' di Camus? Superfluo ripetere che la nostra arte ha bisogno di prossimità, di contatto fisico, di sudore e, talvolta, addirittura di 'sputi in faccia'. Sicuramente, a molti di noi sarà venuto in mente di immaginare un linguaggio, un'estetica per un teatro in tempi di pandemia. Molti avranno iniziato a scrivere o scriveranno tenendosi fedeli al contesto attuale. Ma anche se così fosse, a chi ci rivolgeremo? Chi sarà il nostro pubblico, oltre ai soliti congiunti e affetti stabili? Chi avrà voglia di andare a teatro, nonostante le misure di sicurezza, sempre che possano essere garantite in ogni spazio"?

Potrà un'esperienza del genere essere l'occasione per ripensare un nuovo 'welfare' dello statuto dei lavoratori dello spettacolo?
"La nostra categoria sta prendendo atto di tutte le fragilità, ormai manifeste, che la affliggono. E si sta attivando per modificare il sistema dalla base ridisegnando statuti, scardinando logiche, vizi, abitudini e comportamenti. Oltre all'impegno per la tutela dei nostri diritti di lavoratori, finalizzati a ridare dignità e valore alla nostra professione, tra le necessità maggiori si colloca, senz'altro, un intervento di ridefinizione del sistema di finanziamento e di circuitazione, in direzione di una maggiore accessibilità a fondi, spazi e contesti; diffondere criteri che favoriscano la creazione di opere originali, in grado di interrogarsi e interrogare per creare un nuovo linguaggio di coinvolgimento; affrontare tematiche di impegno civile che lascino più spazio alla partecipazione, all'interazione, al dissenso, alla provocazione se necessario e meno al 'pensiero conforme', alla rassicurante pedanteria; opere che stringano relazione con la contemporaneità, pur partendo dai classici; progetti che valorizzino la ricerca, la formazione degli stessi artisti e del pubblico; interventi didattici e spettacoli costruiti ad hoc per le scuole, che tengano conto del 'bombardamento' degli stimoli digitali a cui sono sottoposte soprattutto le nuove generazioni. La messa in scena di un'opera di Pirandello non può rimanere ancorata all'estetica degli anni '50 del secolo scorso: si rischia di allontanare definitivamente i giovani dal teatro. Al contrario, è necessario operare in funzione del rinnovamento e della formazione del nuovo pubblico, diffondendo buone pratiche di innovazione sociale e rigenerazione urbana, a partire dalle esigenze dei singoli territori. La maggior parte degli interventi sociali che, in Italia, partono dal basso, non solo di teatro - dall'assistenza ai minori e donne vittime di violenza, alla salvaguardia del territorio - anche quando sono a 'costo zero' richiedono sforzi immensi, che non vengono valorizzati, né riconosciuti".

In un post pubblicato sul suo prifilo Facebook, lei afferma che l'indipendenza lavorativa, nel settore teatrale, può essere sinonimo di abbandono e disintegrazione: cosa significa fare teatro oggi? E quali difficoltà e compromessi bisogna accettare?
"Poter avere l'indipendenza e permettersi di fare del teatro la propria missione, oggi è possibile solo avendo un sostegno simile a quello che ebbe Cristoforo Colombo da parte di Isabella di Castiglia per arrivare nelle Indie viaggiando verso occidente. Un paradosso al quale si potrebbe replicare: "Vuoi essere indipendente, ma cerchi pur sempre qualcuno che finanzi la tua indipendenza"? Come dice Kavafis: "Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti"? Se proprio non vogliamo nominare la parola 'finanziamento', allora nominiamo la necessità di sostenere, valorizzare e condividere realtà e progetti, soprattutto se questi vengono incentivati a nascere. Altrimenti, come dicevo poc'anzi, 'indipendenza' diventa sinonimo di abbandono, solitudine, disgregazione. In questo nostro Paese, il passo tra indipendente e disgregato è davvero molto breve. Il decentramento culturale di cui si parla sin dagli anni '70 ha prodotto l'ottima iniziativa dei 'Teatri di cintura'. Ora si sta tentando con l'Estate romana, ma si potrebbe fare di più: la 'cintura' potrebbe essere allargata. Si potrebbe creare un osservatorio delle realtà produttive interessanti ma fragili, possibilmente scevro da interessi personali, grazie al quale venga scelto un progetto all'anno da sostenere all'interno dei teatri stabili o promosso in alcuni circuiti. Vogliamo aiutare le periferie anche sul fronte culturale, o queste restano le solite, cicliche, 'chiacchiere pre-elettorali'? Il decentramento culturale dovrebbe essere supportato da un decentramento politico e amministrativo, per evitare di muoversi tra le 'sabbie mobili', come sta capitando a noi. Ripeto; Roma non è solo il centro, la 'civita vecchia', ma una metropoli multicentrica. Potremmo individuare un centro per ogni municipio. Il nostro, il VII, è grande quanto la città di Bologna. Come può il Comune di Roma, con le altalenanti 'virtù' della sua classe politica, preso dalle problematiche di gestione tipiche di una città complessa, faticosa e contraddittoria, occuparsi degli spazi della cultura in una delle innumerevoli periferie, senza che gli venga ordinato da un potere forte"?




La foto in apertura è stata gentilmente concessa dal fotografo: Marco Missinato

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