Fabrizio FedericiIntellettuale controcorrente, 'inorganico' (e, perciò, scomodo), fustigatore dei gravi ritardi della classe dirigente italiana ma, soprattutto, della sinistra. Quella sinistra mai riuscita a liberarsi dall'ipoteca massimalista, gettatale addosso ben prima della rivoluzione bolscevica, precisamente da quel Congresso socialista di Reggio Emilia del 1912, che vide la sconfitta dei riformisti turatiani e l'ascesa dei massimalisti alla guida del Partito e, in sostanza, del movimento operaio italiano. Questo è stato Luciano Pellicani (1939-2020), scomparso l'11 aprile scorso a Roma, proprio all'indomani del suo 81esimo compleanno, dopo una lunga malattia. Docente universitario di sociologia poltica alla Luiss per molti anni, giornalista e collaboratore di testate come 'Corriere della sera', 'L'Europeo', 'L'Espresso' e 'Il Foglio', a lungo direttore di 'Mondoperaio', la rivista ufficiale del Psi. Storico acuto del pensiero politico e della genesi della società moderna, autore di saggi  come 'I rivoluzionari di professione'  (Vallecchi, 1975), 'La genesi del capitalismo e le origini della modernità' (Sugarco, 1988), 'Lenin e Hitler: i due volti del totalitarismo' (Rubbettino, 2009). Ma soprattutto, Pellicani, pugliese, figlio di quel Michele Pellicani già redattore capo del periodico comunista 'Vie nuove', approdato poi alle sponde socialiste democratiche dopo la tragedia ungherese del 1956, insieme ad altri 'cavalieri transfughi' come Antonio Ghirelli, Giuseppe Averardi, Tomaso Smith ed Eugenio Reale, è stato l'interprete più coerente, sul piano culturale e giornalistico, del 'nuovo corso' socialista imboccato da Bettino Craxi all'indomani della disfatta elettorale del 1976 e di quel Comitato centrale all'hotel 'Midas' che portò alla guida del Partito la generazione dei 'quarantenni' (Craxi, Martelli, Manca, Cicchitto, De Michelis). Proprio Luciano, come 'ghostwriter', è stato l'autore dello storico saggio - pubblicato, a firma Bettino Craxi su 'L'Espresso' nell'agosto del 1978, pochi mesi dopo il delitto Moro - con cui il leader del Psi aveva indicato alla sinistra italiana la necessità di attingere idee per il futuro non dal violento e obsoleto armamentario 'marxista-leninista', ma dalla ricca tradizione del socialismo riformista europeo, da Proudhon a Carlo Rosselli. E aveva esortato non solo i socialisti, ma tutta la sinistra, a mandare definitivamente in soffitta il ciarpame rovinoso sia del 'leninismo', sia del 'togliattismo filostaliniano'. Dieci anni dopo, a marzo 1988, appunto lo 'stalinismo italiano' - dal Togliatti 'eminenza grigia' di Stalin nella guerra di Spagna all'ostracismo, ancora dominante a fine '900 nel Pci, verso quegli esuli comunisti italiani in Russia ingiustamente perseguitati perchè ritenuti agenti del fascismo - sarebbe stato il tema di un combattivo convegno organizzato, a Roma, proprio da Pellicani come direttore di 'Mondoperaio' e dell'omonimo centro culturale. Tali sue teorie, cioè la necessità di chiudere definitivamente i conti col 'leninismo', optando per una strada autenticamente socialdemocratica ed europea, è ciò che Pellicani avrebbe cercato di far comprendere alla sinistra italiana, recuperando anche la lezione di intellettuali stranieri come l'eretico ex-comunista jugoslavo, Milovan Gilas e il socialista francese 'mitterrandiano', Gilles Martinet. Il 1° maggio 2002, venne sonoramente fischiato a Roma dopo soli pochi minuti di discorso sul palco dei sindacati in piazza San Giovanni, per aver criticato il 'giustizialismo' di Antonio Di Pietro e dei 'girotondini'. Pur fortemente critico verso il massialismo periodicamente riaffacciantesi a sinistra, Pellicani, liberalsocialista, aveva scelto di rimanere nell'area 'ulivista' pur sapendo di essere il punto di riferimento di un'esigua minoranza. Sempre controcorrente, anche durante la militanza nel Psi si era dissociato ufficialmente da alcune scelte socialiste, come quella antinuclearista del 1987 (presa sull'onda dei fatti di Chernobyl) e quella, ben più grave, di chiudere gli occhi sulla degenerazione 'partitocratico-scandalistica' del Psi. Rigorosamente laico nella tradizione risorgimentale e turatiana, si era sempre opposto alle pretese della Chiesa cattolica di imporre i suoi valori alla società civile sapendo, al tempo stesso, apprezzare i molti 'lati positivi' del magistero di pontefici come Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e lo stesso Benedetto XVI. Una grave perdita, insomma, sotto il profilo intellettuale, in un quadro complessivo italiano che tende regolarmente a degenerare verso politiche sempre più paternaliste e populiste.


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