A
20 anni di distanza dalla scomparsa di
Bettino Craxi, si sappia che una delle voci meno sospettabili di
'nostalgia' per la fase storica della
'Milano da bere' è proprio quella del sottoscritto. Prima degli anni di
'Tangentopoli' e dell'inchiesta
'Mani Pulite', non ero affatto un sostenitore del leader socialista. Al contrario, numerose erano le critiche che muovevo per il suo atteggiamento nei confronti del
Pci, che ai tempi della caduta del
muro di Berlino si stava dibattendo in una difficilissima
crisi politica e
identitaria: un trauma che il mondo
italo-marxista non è mai riuscito a superare del tutto. La mia posizione di allora era molto simile a quella dell'ex presidente della Repubblica,
Sandro Pertini, che cercò di sollecitare una qualche forma di solidarietà nei confronti di un intero
'pezzo' della
sinistra italiana, la quale, pur tra errori e contraddizioni, aveva svolto un ruolo storico molto importante per il nostro Paese. Forse, si trattava di
ingenue fibrillazioni giovanili, nella speranza che si potesse finalmente uscire dal
'vicolo cieco' di una
'democrazia bloccata', totalmente priva di
alternative o di semplice
alternanza, per lo meno
periodica. Ma tutto quel che accadde in seguito
non mi piacque affatto. Soprattutto, per come venne trattato
Bettino Craxi, che in diverse occasioni aveva dato prova di possedere una
statura politica ragguardevole, rispetto alla
mediocrità complessiva della nostra classe politica di allora, che non era poi così diversa da quella di oggi. Non mi piacque un processo di
criminalizzazione che tornava comodo a molti, per motivi che con la
moralizzazione della politica avevano poco o nulla a che vedere.
Bettino Craxi ha anche subìto alcune
condanne: questo è un dato di realtà con cui bisogna, indubbiamente, fare i conti. Ma si è trattato di sanzioni che gli vennero comminate per fatti che aveva
sinceramente dichiarato di conoscere, ma di cui non si era occupato
in prima persona. Anche le
'fake news' circolanti allora, rivolte a descrivere la sua
villa di Hammamet come una sorta di
'reggia monarchica', erano assolutamente
prive di fondamento: essendomi recato più volte sul posto, posso confermare che si tratta di una normalissima
villa al mare, acquistata all'inizio degli
anni '70 del secolo scorso - quando
Craxi era
vicesegretario del
Psi - perché
costava poco e il debole
dinaro tunisino consentiva di cogliere un'occasione senza dover dilapidare risparmi. Io stesso, che durante l'infanzia ho trascorso le vacanze estive in una splendida tenuta alle
Falasche, ho avuto parentele assai più facoltose della
famiglia Craxi. Soprattutto, nel campo di
un'editoria italiana legata a
'doppio filo' con lo
'strapotere' democristiano. Un potere apparso a lungo
inamovibile, anche quando la
Dc le elezioni le
perdeva. Persino quando, per molti italiani, giungeva il momento di
"turarsi il naso", come scrisse, una volta,
Indro Montanelli. Insomma,
Bettino Craxi fu sempre estremamente
sincero nell'ammettere un sistema di
finanziamento irregolare o
illegale della
politica che, in realtà,
"non lo vedeva chi non lo veleva vedere". E i suoi errori di fondo, al netto delle inchieste giornalistiche realizzate in questi anni, rimangono gli stessi:
a) una certa
'sbadatezza' nella scelta degli uomini di cui attorniarsi;
b) un'eccessiva
'sicumera' nel proteggere personaggi a dir poco discutibili;
c) l'aver confuso il
'rampantismo' di alcuni
gruppi affaristici come un
'risvolto' della modernità, dopo che la famosa
'marcia dei 40 mila', a
Torino, aveva dato uno
'stop' alquanto deciso alla
visione 'operaista' del
Partito comunista italiano. Secondo
Craxi, era giunto il momento di rilanciare un ceto imprenditoriale e impiegatizio che domandava una nuova fase di espansione economica, anche al fine di
affiancare e, quando possibile,
sostituire, l'inconcludente
'parassitismo' dei vari
notabili e
'boiardi' di Stato democristiani. Lo stesso
Craxi, una volta, ne parlò con
Enrico Berlinguer. Il quale, tuttavia, non seppe cogliere quel preciso
'segno dei tempi', che stavano mutando. Il
leader comunista proveniva da una tradizione indubbiamente molto seria, quella del
Pci: una strana via di mezzo tra una
caserma e una
chiesa, che incontrava nella
lotta di classe e nella
conflittualità sociale il suo stesso
limite, costringendolo a teorizzare una
governabilità perennemente
debole e
un'instabilità che finiva col congelare ogni
doppiezza, ogni
dualismo, ogni
ambiguità. Ovvero, tutto ciò che agli italiani non serviva minimamente. La
moralità di
Berlinguer "non serve a nulla", aveva scritto
Pier Paolo Pasolini pochi anni prima. Bisognava fare un'altra cosa, in realtà: anticipare
un'evoluzione riformista che, alla lunga, riuscisse a
far 'scivolare' i
ceti medi verso il
Psi, riequilibrando i rapporti di forza a sinistra, ma prendendo atto, al contempo, degli
'strappi berlingueriani' rispetto al
grigiore burocratico dell'Unione sovietica. Peraltro, alcuni
'scricchiolìi' del
sistema comunista erano divenuti sensibili, se non addirittura evidenti. A cominciare dall'invasione
dell'Afghanistan del
1980, dove poche migliaia di
'montanari' erano riusciti a tenere
in 'scacco' l'intera
Armata Rossa, costringendola a una guerriglia lunga e dispendiosa. Lo stesso, identico, problema che in seguito hanno incontrato - e che rischiano di incontrare ancora oggi - gli
americani. Quella zona del mondo si rivela sempre assai
difficile sotto il profilo militare, poiché impedisce
manovre ordinate, trasformandosi, per motivi molto diversi rispetto al
Vietnam, in una
'trappola'. Insomma,
l'Urss non riusciva più a realizzare neanche l'unica cosa che, di solito, sapeva fare:
invadere un Paese e
'normalizzarlo', al fine di soffocarne ogni
velleità 'libertaria' o anche solo vagamente
riformista. I sintomi
dell'affanno sovietico c'erano tutti. Lo stesso
Berlinguer aveva intuito qualcosa nel
1981, quando parlò di
"esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d'ottobre", ma con minor lucidità rispetto a
Bettino Craxi e ai socialisti. Il vero
'momento-soglia' - o lo
'spartiacque', come si dice in questi casi - rimane il crollo del
muro di Berlino. La fine delle ideologie ha trascinato con sé non soltanto il
mondo comunista, ma ogni tradizione
culturalmente 'nobile' della politica. La
'società liquida' cominciò proprio allora. E i nostri
'piagnistei' nei confronti della
magistratura, alla fine c'entrano poco o nulla all'interno di un simile
contesto storico, perché la verità è che, di fronte a un evento epocale come quello, che stava cambiando le
'carte in tavola' a mezzo mondo, nessuno fu in grado di proporre una
risposta per lo meno
dignitosa, sotto il profilo
ideologico-culturale: i
comunisti si ritrovarono costretti a muoversi in un territorio liberaldemocratico completamente
privi di 'mappe'; i
democristiani si spaccarono tra un'ala
'maritainiana' e il grosso del suo elettorato più
accidioso e
tradizionalista; gli stessi
socialisti, che avrebbero dovuto essere i
veri vincitori di quella fase, si ritrovarono compromessi dalla lunga coabitazione di governo con la
Dc, che aveva
'democristianizzato' comportamenti e atteggiamenti, generando molte
'male erbe' nel giardino dei
'frutti opìmi'; infine, i
Partiti laici rimasero anch'essi prigionieri del tragico equivoco di risultare, da sempre, elettoralmente
'sottorappresentati' e di avere anch'essi
'trescato' - ancora più a lungo, rispetto ai socialisti - con il
mondo cattolico, al fine di lucrarne
incarichi di potere e
rendite di posizione. Probabilmente, la formazione politica che avrebbe dovuto veder riconosciuti i propri meriti, per le coraggiose battaglie civili sostenute in anni in cui il
moralismo bigotto delle
'due chiese' - quella
cattolica e quella
comunista - risultava
schiacciante, era il
Partito radicale di
Marco Pannella. Ma c'è anche da dire che gli
italiani, un popolo facilmente
omologabile, nonché manipolabile da
convenienze momentanee o
contingenti, non hanno mai amato certe
posizioni 'di frontiera', giudicate troppo distanti dalle loro
esigenze immediate. Il
conservatorismo 'restauratorio', alleatosi con quello
reazionario, ebbe un
'sussulto' di vitalità non appena si presentò qualcuno di diverso, o che per lo meno appariva come tale, rispetto a tutto ciò che c'era stato prima:
Silvio Berlusconi. E questo rimane un ulteriore
'passaggio' decisamente
stravagante per un Paese fondamentalmente
conservatore come il nostro, che tuttavia ama lasciarsi affascinare dalle
'sirene' più
vuote e
degenerative anziché confidare in soluzioni più
razionali e
meditate. E comunque, con gli occhi di oggi, bisogna anche ammettere che il
'berlusconismo', pur avendo fallito il proprio compito di
'traghettamento' verso una
"rivoluzione liberale" della società italiana, non sia il solo responsabile del proprio fallimento: le
destre italiane, fortemente
dissimulatrici e culturalmente
statiche, rimangono un alleato capace di
impaludare chiunque voglia inoltrarsi verso un territorio anche solo parzialmente distinto, rispetto ai miasmi
dell'irrazionalismo 'subculturale'. In conclusione, a
20 anni di distanza dalla morte di
Bettino Craxi, ben poco è cambiato in
Italia. E quel poco che è cambiato, si è spesso rivelato un
rimedio peggiore del male. Noi italiani siamo quelli di sempre: avviluppati nelle nostre
'sabbie mobili' ideologiche, immersi fino al collo
nell'opportunismo della
'politica politicante', interpretata da attori sempre più
'cani'. Di fronte alla
sconcertante banalità di tutto questo, non si può continuare a sostenere che
Bettino Craxi non sia stato un leader politico di
notevole spessore. E si conferma un colpevole
errore continuare a giudicare la classe dirigente espressa dal
'suo' Psi come
"una banda", perché così non era: il
Psi era un Partito certamente
migliore di tanti altri. Di allora e di oggi.