Luigi Di Maio ha partorito. E' un
decreto. Si chiamerà:
'Decreto rimpatri' e, di soprannome, fa:
"Se un migrante può stare in Italia, si deciderà in 4 mesi e non più in due anni". Come ho già scritto da qualche altra parte:
staremo a vedere. Il
decreto, che andrà convertito in legge, possibilmente migliorativa dell'orrenda
'Bossi-Fini', avrà bisogno anche di un
regolamento di attuazione e di
soldi. Sì, anche lui, come ogni pargolo, dovrà essere sostenuto dai denari. Ma il
ministro degli Esteri è raggiante e, soprattutto,
'sobrio' [sic] nei modi e nello sproloquio. Bontà sua. Cosa fa del decreto un capolavoro?
Nulla. Ma anche il
nulla è un passo in avanti, nel deserto legislativo. E questo
nulla gli consentirà di rifiutare - e rispedire indietro, con quali soldi? - migranti provenienti da
Paesi ritenuti sicuri dall'Italia. A meno che, il
singolo richiedente non riesca a dimostrare che la sua situazione è tale che un ritorno in patria gli potrebbe arrecare
gravi danni. In realtà, è tutto uguale a prima. Perché anche prima, nonostante le singole domande venissero gestite dalla
'commissione asilo', costretta a istuire un'istruttoria che durava mesi, il
migrante doveva fornire prove del suo
'status' di
perseguitato. Ho almeno trenta amici che stanno nel
'limbo' da anni, con storie
documentatissime, molti di loro
gay. Quindi, da oggi in poi i
migranti che fuggono devono ricordarsi, prima della fuga, di
produrre le prove del
perché e del
'percome' della loro fuga. Un semplice:
"Mi sparavano nel culo a ogni passo" non basterà più. Ciò, naturalmente, è valido solo per i
13 Paesi con i quali
Di Maio e
'ciurma' hanno stretto il
'pacco', scusate, il patto:
Marocco, Algeria, Tunisia, Albania, Bosnia, Capo Verde, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Senegal, Serbia e
Ucraina. Gli altri faranno ciò che fanno ora:
aspetteranno senza sapere che fare.
Lavoreranno in 'nero'. Si prenderanno
maledizioni e
parolacce. E, soprattutto,
colpe. Ma prima devono
sopravvivere al mare. E, ancor prima, ai
trafficanti libici. Che sono, spesso, loro
'compaesani'.