In economia,
l'accumulazione è un processo di accrescimento della capacità produttiva futura mediante l'accantonamento di una parte dei ricavi derivanti dalla produzione, o anche di parte della produzione medesima. Il concetto è conosciuto anche con la
locuzione 'marxiana':
"Accumulazione di capitale". Essa si realizza quando un sistema economico riesce ad
'ammortare' il capitale originario e ad accantonare risorse potenzialmente in grado di favorire nuovi investimenti, a prescindere da quelle destinate al consumo. Ecco per quale motivo un'impresa è tenuta a distinguere il
bilancio aziendale dal
portafoglio personale dei suoi soci, ai quali vanno destinati unicamente gli onorari stabiliti e prefissati tra i
costi 'variabili'. In pratica, si entra nel campo dei cosiddetti
'extraprofitti', ai quali un'azienda non deve per forza rinunciare sulla base di considerazioni moralistiche. A patto che questi extraprofitti, o parte di essi, vengano indirizzati verso nuovi investimenti, in particolar modo in innovazione e ricerca. In sostanza, quando negli ambienti sindacali, ma più recentemente anche in quelli della destra sovranista, si parla di imprenditori che
"non vogliono rinunciare ai loro extraprofitti" si sostiene una
tesi astratta: il mondo dell'impresa non va posto sotto accusa poiché colpevole di
accumulare risorse aggiuntive, bensì perché tali risorse non sempre vengono destinate agli
investimenti, o all'incremento della
produttività finalizzata a
riorganizzare la produzione, rendendola più competitiva. Dunque, il concetto di
accumulazione non ha connotazioni espressamente negative o dispregiative: si tratta di comprendere l'utilizzo che dev'essere fatto di queste potenzialità, per effettuare un ulteriore salto di qualità. E' chiaro che ciò può anche avere
declinazioni distinte, rispetto a quella da cui tale concetto si è originato. Nell'ottica sociologica
'weberiana', per esempio,
l'accumulazione finalizzata al miglioramento delle condizioni di lavoratori e consumatori assume addirittura una
valenza 'spirituale'. In pratica,
l'avanzamento 'espansivo' di un'attività è parte di un
processo collettivo che, sommandosi agli altri, genera un miglioramento complessivo della società. Qui si rischia, tuttavia, di entrare in settori che non appartengono alla scienza economica, bensì a quella
socioeconomica. Ovvero, in un
territorio 'di mezzo' tra
economia e
sociologia che non va confuso né con la prima, né tantomeno con la seconda. Usi, costumi e rapporti individuali non appartengono al mondo dell'economia politica, poiché si rischierebbe di contrattualizzare anche i comportamenti, rendendoli
'meccanicisti', mentre invece essi si basano, o dovrebbero basarsi, su princìpi e valori sociologici tesi ad allontanare l'appiattimento sociale. Al contrario, il
'terreno di mezzo' che viene a crearsi, cioè quello
socioeconomico, tratta semplicemente delle ricadute e degli impatti che i fenomeni di sviluppo hanno nel modificare o meno i processi di trasformazione della società, incidendo su di essa. E' questa la confusione che si tende a fare, ancora oggi, nelle
società arretrate: un terreno di analisi socioeconomica non viene considerato e ci si appiattisce semplicemente sulla
mercificazione degli atteggiamenti, dei comportamenti e dei rapporti sociali. Coloro che cadono in questo errore, sostanzialmente sono convinti che
lo sviluppo basti a se stesso, senza che sia necessario accompagnarlo con altre forme di progresso culturale, scientifico, artistico, intellettuale o sociologico. Si tratta di un
errore fondamentale, che rende il processo produttivo totalmente
quantitativo, sganciandolo non soltanto dal raggiungimento di un'effettiva
qualità della vita collettiva, ma anche da ogni
finalità 'indiretta' di progresso pieno e completo della società. Per farla breve, si torna al
liberismo selvaggio 'smithiano', che essendo stato concepito all'inizio del
XIX secolo, rende il processo di accumulazione capitalistica un qualcosa di egoistico, basato sul mero
possesso delle 'cose' e, persino, delle
persone. Proprio
l'analisi sociologica 'weberiana', pur mantenendosi in un terreno puramente capitalistico, assume un valore ben preciso anche dal punto di vista della
critica 'marxista', poiché finalizza l'economia verso una crescita complessiva della società, benché in un'ottica diversa rispetto a quella utilizzata da
Karl Marx. Questo concepire l'economia come
scienza sociale fu un'intuizione ingegnosa del
filosofo di Treviri, che tuttavia il maestro sviluppò secondo schematismi che, alla luce della Storia, si sono rivelati non del tutto corretti, o solamente in parte. Il
capitalismo di Stato 'marxista' ripropone, cioè, una nuova
degenerazione verso l'appiattimento della società sugli aspetti quantitativi e materialistici, incamerando in sé i medesimi difetti e le stesse distorsioni che il modello capitalistico generalmente tende a delineare, anche se rinchiusi in una
gabbia centralista fortemente burocratizzata. Fu questo il vero punto di caduta
dell'analisi economica 'marxiana', la quale si dimostrò
poco 'snella' e altrettanto
ingiusta, poiché
egualitaria in senso
puramente formale e non anche in quello sostanziale. In buona sostanza, dobbiamo tutti quanti smetterla di continuare a
'sbarellare' tra
concetti estremi o addirittura
opposti. Il risultato di una fase di
progresso socioeconomico reale deriva anche da ciò che i singoli individui creano o, più semplicemente, fanno nella loro vita di tutti i giorni: non può dipendere tutto da una
programmazione pianificata dall'alto. In secondo luogo, una miglior
qualità della vita deriva anche da fattori
socioantropologici, che incidono anch'essi nel processo di sviluppo di una società. Se i nostri figli non vengono
bene istruiti e si tollera una scuola basata più sulle
promozioni che sul
nutrimento culturale dei singoli alunni, il futuro di una nazione sarà
peggiore, poiché si mescoleranno valori e princìpi con scopi e finalità, anche quelle più ciniche ed egoistiche. E ciò non avviene esclusivamente sul terreno empirico del
capitalismo finanziario. Non ci sono solo problemi di soldi, di investimenti non effettuati o fatti in ritardo e, dunque, poco competitivi sui mercati: esistono anche fattori sociali e umani, in cui il
processo di accumulazione è necessario, al fine di mantenere in equilibrio lo sviluppo stesso della società. Esistono, insomma, anche
problemi 'spirituali', valoriali, di principio, che accompagnano il processo di
accumulazione materiale con fattori
sovrastrutturali, culturali e politici, attraverso processi di sintesi non puramente
utilitaristici. Altrimenti, diviene normale assistere a una degenerazione continua della società, in cui anche i rapporti umani più semplici degradano nella mercificazione, avvicinando persino argomenti come
l'amore verso forme di
prostituzione o di
pornografia. Tale nostro ragionamento giunge persino in
grave ritardo, poiché una larga fetta del mercato ha già da tempo generato molte delle sue
distorsioni più squallide e
materialistiche, a dimostrazione di una
confusione 'oggettiva' tra
spirito e
materia, tra
teoria e
prassi. Tutto ci trascina, sempre e comunque, verso i medesimi difetti: quello di porre unicamente il
consumo al centro delle nostre analisi, favorendo processi di sviluppo
'caricaturali' e persino
attitudini mortifere. Ecco perché è corretto proporre
nuovi modelli di sviluppo: per riportare le nostre analisi su quel
'terreno di mezzo' che eviti ogni
sganciamento dell'interesse indivuale rispetto a quello
generale. Solo la
politica può
correggere i processi produttivi nella direzione più corretta, anticipando le mosse dell'economia o condizionandone la direzione di marcia. Perché il sistema di mercato è come un
cavallo selvaggio che corre a briglie sciolte. Un cavallo che può e dev'essere guidato unicamente dalla
politica.
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(editoriale tratto dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine' n. 50 - settembre 2019)