L'Italia è un Paese fatto alla rovescia. Sin dai tempi del
Risorgimento, essa avrebbe dovuto riunificarsi in base al genio e alla creatività dei
meridionali, unite alle capacità organizzative dei
piemontesi. Le cose andarono esattamente al contrario. E ancora oggi, questa nostra caratteristica spiega molto bene tante
incongruenze e
contraddizioni. Ma a prescindere da ciò, bisogna indubbiamente ammettere che, sotto il profilo della
creatività e
dell'astuzia, noi italiani non siamo mai stati
secondi a nessuno. Ma esiste un limite alla
fantasia? Siamo certi che essa non possa trasformarsi, spesso e volentieri, da qualità a
bizzarrìa, insomma in un
difetto? Innanzitutto, sarebbe buona cosa che la nostra capacità inventiva fosse accompagnata anche da una mentalità maggiormente
organizzativa, cioè da un
ingegno 'tecnico' che funga da base strutturale della nostra creatività. In secondo luogo, tra i distinti modi di essere creativi dovremmo comprendere maggiormente anche le varie tipologie di
mutualismo, in quanto portatrici di criteri e di valori che, nella
'piattezza' dello
sviluppo tecnologico - o
'tecnocratico' - in atto,
diventano nuovi modi di
colorare dialetticamente la realtà che ci circonda. In buona sostanza, la
pura originalità è un falso mito. Anche le forme architettoniche
barocche del
XVII secolo non furono altro che lo sviluppo di elementi di
realismo neoclassico, sulle quali si innestarono una serie di
irregolarità che raggiunsero, in molti casi, l'eccesso opposto: quello di una creatività artistica
angosciante, che finiva col porre, in termini strettamente filosofici, una domanda basilare sull'effettiva esistenza di un
senso nella nostra vita. Tutto ciò dovrebbe, teoricamente, averci insegnato che anche la
fantasia e la
creatività hanno i loro
limiti, poiché esse, allorquando superano il confine dell'ammissibile, provocano il sorgere di nuove
esigenze empiriche, pratiche, materialistiche. In buona sostanza, fantasia e creatività giungono, a un certo punto, a generare il loro
opposto. Ovvero, l'esigenza di un ritorno alla
solidità, alle fondamenta della nostra identità più profonda, autentica, reale. Per dirla con
Vico, tale processo comprova, ancora una volta, come ogni opera dell'uomo, anche la più complessa, giunga sempre di fronte ad alcuni
momenti di svolta, i quali ripropongono il tema della
semplicità, di
un'estetica più naturale e, al contempo, più vicina a quei princìpi originari in grado di aprire un nuovo ciclo della Storia. Insomma, fantasia e creatività possono arrivare a dar vita a veri e propri
'Leviatani', i quali finiscono col rappresentare la crisi stessa della
complessità e della
distorsione, mutualistica o meno essa sia. Perché c'è sempre un ritorno alle origini, in tutte le cose. Guai se così non fosse, poiché ciò significherebbe attardarsi attorno a concetti e a idealità
statiche, fisse, immutabili. Significherebbe escludere ogni principio di
elasticità, che invece svolge un ruolo
'meta-empirico' ben preciso nell'intero universo. Anche la materia viene posta al vaglio del tempo e dell'esperienza: è questo il vero principio scientifico della fantasia, della creatività, dell'arte in quanto momento di
'pura soggettività'. E all'interno di un simile percorso, non è affatto vero che il disegno dell'uomo sia poi così oscuro e misterioso: la nostra esistenza viene posta al vaglio dello
'spirito', che è ciò che connota veramente il nostro percorso storico-evolutivo. Il ciclico ritorno alle origini è la vera forza che
'media' la fantasia umana e la sua energia creativa, ponendo il singolo individuo di fronte a se stesso e alla sua autenticità. Detto in termini teologici: innanzi alla sua
'veracità'. In un simile disegno, persino l'esistenza di
Dio può trovare una nuova
collocazione. Persino la fede e i misteri a essa legati possono svolgere una loro
funzione. Questa è, dunque,
la vera forza della creatività e
dell'intelligenza umana: riportarci regolarmente verso quelle forme di sobrietà, di essenzialità, di semplicità, che sono la dimostrazione stessa di come il nostro cammino nella Storia non sia affatto un
esilio. E che la nostra stessa esistenza sia assai
meno dolorosa e
angosciante di quanto noi stessi, in certi momenti della vita, più o meno convintamente, riteniamo o crediamo.
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(editoriale tratto dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine' n. 48 - maggio/giugno 2019)