Vittorio LussanaNell'impero romano, la libera cittadinanza si poteva ottenere in vari modi: sostenendo attivamente il dominio di Roma e la sua strutturazione sociale; acquisendola per meriti speciali; oppure ancora acquistandola per diritto di censo, cioè pagando una tassa piuttosto onerosa, che in pochi potevano permettersi. Poi c'erano gli indigeni, che praticamente erano considerati degli stranieri in casa propria. Ecco perché capitava quel che si potrebbe definire: "Il paradosso di Paolo". E cioè possedere lo 'status' giuridico di cittadino romano per nascita, non per concessione. L'apostolo Paolo, infatti, proveniva da una famiglia di notabili ebrei dell'Asia minore stabilitisi a Tarso, nell'attuale Turchia, i quali avevano accettato e sostenuto, con il proprio lavoro e versando le tasse, il dominio di Roma. Ma a differenza del proprio nucleo familiare di provenienza, egli non aveva ottenuto la propria cittadinanza per concessione ottriata, cioè per una magnanima decisione proveniente dall'alto, né per meriti particolari: egli era cittadino romano per diritto di nascita. Non per questioni di sangue, dunque, né in quanto appartenente alla razza romana o italica, bensì perché era figlio di prima generazione di ebrei anatolici divenuti cittadini romani. Egli, pertanto, ereditò la cittadinanza poiché nato su un 'suolo' politicamente e militarmente occupato dall'Impero romano. Una caratteristica che dimostra non soltanto come il cosiddetto 'ius soli' esistesse già nell'antichità, ma anche che i nostri progenitori più antichi, i romani, erano giuridicamente più avanti di noi. Paolo, insomma, beneficiò dello 'ius soli'. Perchè i romani - e stiamo parlando, si badi bene, dei romani 'pagani', cioè non ancora 'cristianizzati' da Costantino - concepivano una società in cui prima veniva il diritto e, solo in seconda battuta, il sangue, la famiglia, le parentele e altri criteri consuetudinari o contingenti. La preminenza del diritto è ciò che rende realmente etica una società, poiché favorisce l'instaurazione di princìpi anche provenienti da molto lontano, come appunto quello dello 'ius soli'. Ed è questa la riflessione che veniamo a porre, quest'anno, in occasione delle festività pasquali. Augurando, naturalmente, una felicissima Pasqua ai nostri lettori e a tutti gli italiani. Nessuno escluso.




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Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - lunedi 22 aprile 2019 21.21
RISPOSTA AL SIG. ROBERTO: gentile lettore, la questione è effettivamente controversa, ma non tanto sotto il profilo storico, bensì per quello giuridico, poiché nel diritto romano esisteva sia il principio dello ius soli, ma non disgiuntamente da quello dello ius sanguiniis. Per cui, a chi interessa far prevalere il dato di sangue o familiare per motivazioni puramente ideologiche, conviene sostenere che Paolo abbia ereditato il suo status di cittadino romano dalla famiglia. In realtà, le cose non stanno esattamente così: il diritto del suolo, in epoca romana, valeva anche per i figli delle popolazioni indigene meritevoli, o comunque che si occupavano del loro lavoro e dei loro affari e non ponevano politicamente in discussione il dominio di Roma. Nel caso di Paolo, i suoi genitori erano sì cittadini romani, ma per concessione ottriata, cioè determinata dall'alto. E' esattamente questa la distinzione più importante in questo mio articolo: la cittadinanza dell'apostolo delle genti scattò in automatico, per diritto di nascita, non per concessione amministrativa, né per eredità familiare. Le faccio un esempio personale: io stesso sono figlio di genitori bergamaschi, ma sono nato a Roma. Dunque, sono romano. In questo esempio, subentra anche il principio di residenza dei miei genitori, che in effetti erano già residenti in Roma all'epoca del fatto (o del 'misfatto'...). Ciò non toglie, che il principio di residenza e il principio del suolo di nascita convivano in egual modo: il primo non esclude affatto il secondo. E viceversa. Poniamo ora l'esempio di un minore figlio di genitori francesi, ma nato e cresciuto in Italia: il minore dovrebbe essere considerato italiano? A meno che non si tratti del figlio di diplomatici francesi, che cioè svolgano funzioni di rappresentanza politica in Italia per conto della Repubblica francese, io penso di sì. Anche perché, al compimento della maggiore età del ragazzo, questi potrebbe anche scegliere di diventare cittadino francese, pur continuando a vivere e a risiedere in Italia. Oppure ancora, optare per la doppia cittadinanza (cosa possibile in molti casi...). Dal diritto di cittadinanza discendono, o possono discendere, molti 'effetti' di cui i cittadini non sono informati, per via dei vari condizionamenti sociali, oppure per semplici consuetudini che, tuttavia, non sono affatto fonti di diritto. Per lo meno, non nel nostro ordinamento (in quello britannico, invece, sì...). La controversia è tutta qui: per abitudine mentale, si preferisce continuare a far discendere la cittadinanza automatica, o per diritto di nascita, dal diritto familiare o da motivazioni di sangue. Ma in realtà, come specifico anche alla fine del mio articolo, la norma giuridica, cioè lo Stato di diritto, viene prima. O dovrebbe venire prima. Cordiali saluti. VL
Roberto - Roma - Mail - lunedi 22 aprile 2019 20.30
Gentilissimo direttore, non riesco a comprendere la differenza tra l'apostolo Paolo e chi nasce in Italia da genitori italianizzati. Se la cittadinanza è automatica per chi è figlio di cittadini italiano, allora si tratta comunque di un diritto ereditato per questioni di sangue o di famiglia. Insomma non vedo dove sia la differenza. Credo che si tratti di una questione controversa, sia come principio giuridico che come fatto storico relativo a San Paolo. A meno che non mi sfigga la notizia. Anche perché sono favorevole all'intriduzione di un principio più inclusivo, perché attendere che il minore diventi maggiorenne mi sembra un qualcosa di antiquato. Attendo un suo chiarimento, grazie.


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