Gianni LongL’idea di un disegno di legge ‘generale’ di riforma della legislazione sui “culti ammessi” del 1929-30 non nasce dalle Chiese evangeliche, persuase che la via più rispettosa del dettato costituzionale sia quella della stipula di nuove intese, riducendo sempre più l’area delle cosiddette ‘confessioni senza intesa’. Tuttavia, queste Chiese hanno sempre collaborato lealmente con gli organismi governativi e parlamentari per l’individuazione di una normativa idonea a regolare le diverse situazioni nel rispetto dei principi costituzionali. In questo senso, il disegno di legge presentato dal governo Berlusconi il 18 marzo 2002 appariva idoneo a risolvere in modo positivo il problema. Nonostante qualche osservazione di dettaglio, esso era pienamente rispettoso della libertà religiosa e offriva soluzioni tecnicamente pregevoli per le diverse situazioni. Vi era quindi la speranza che esso potesse percorrere rapidamente il proprio iter parlamentare. Del tutto diverso è il giudizio sul testo approvato dalla Commissione Affari Costituzionali e oggi all’esame dell’Assemblea della Camera dei Deputati. I numerosi emendamenti approvati in Commissione hanno completamente snaturato il testo che oggi sembra tale da non garantire la libertà e la chiarezza delle disposizioni normative.
Non è qui possibile enumerare tutti i problemi sollevati dal testo all’esame della Camera. Mi limito ad enumerare i più evidenti, restando a disposizione per un esame più analitico del testo.
Art. 2. Nel testo approvato scompare, rispetto a quello governativo, la menzione della credenza che nei trattati internazionali indica la libertà di non credere. Ciò potrebbe configurare una discriminazione, tanto più che all’art. 3 si dice che nessuno può essere discriminato o soggetto a costrizioni in ragione della propria fede religiosa. Ciò significa forse che può essere discriminato per non avere una fede religiosa?
Art. 10. Il concetto di guida spirituale non appare chiaro. Le intese vigenti con confessioni evangeliche e anche quelle firmate con altre confessioni introducono chiari criteri di equivalenza tra il concetto legislativo di ministro di culto e quelli propri delle diverse confessioni. E’ meglio quindi attenersi al concetto tradizionale di ministro di culto, ma senza che esso venga imposto alle diverse confessioni da un organo statale, come prevede il successivo comma 2. Il Ministro dell’interno dovrebbe diventare una sorta di super-teologo, stabilendo chi sono i ministri di culto sulla base della natura e delle tradizioni delle singole confessioni religiose. Era molto più chiaro ed efficace il disegno di legge governativo, il quale affidava alle confessioni con personalità giuridica, oltre che a quelle con intese, la certificazione dei propri ministri, lasciando l’approvazione ministeriale per i ministri di confessioni prive di personalità giuridica.
Art. 11. Attualmente esistono due forme di matrimonio “religioso con effetti civili”: nel matrimonio cattolico e in quello ebraico il celebrante legge, nel corso del rito, gli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi; in quello celebrato dalle cinque confessioni evangeliche con intesa, tale lettura avviene in precedenza, da parte dell’ufficiale di stato civile al momento delle pubblicazioni. Il disegno di legge governativo prevedeva che quest’ultima procedura fosse seguita anche dalle confessioni senza intesa. Il legislatore può ovviamente modificare questa scelta, prevedendo che si segua il modello cattolico ed ebraico. Il testo dell’art. 11 prevede però un ’terzo rito’, in cui la lettura degli articoli avviene due volte. Ne risulta una notevole complicazione delle forme di matrimonio (e delle possibili cause di nullità): sarebbe meglio scegliere una delle due forme esistenti. Analogamente, per motivi di chiarezza, nella riformulazione del codice civile (in particolare art. 83) sarebbe bene menzionare le intese esistenti. Tale menzione, probabilmente superflua nel progetto di legge (dove già figura all’art. 41) non sarebbe invece inutile nel codice civile, dove le intese non sono altrove menzionate.
Art. 13. E’ stata introdotta la precisazione che le affissioni e le pubblicazioni nei luoghi di culto sono libere purché il loro contenuto non contrasti con le disposizioni di cui all’articolo 18, comma 3, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881. In proposito va osservato che un richiamo alle modalità di esercizio della libertà religiosa come previsto dalle convenzioni internazionali (v. art. 2 del progetto) non è inopportuno. Il puntuale richiamo dei limiti di tale libertà in quasi tutti gli articoli sembra invece, più che avere un concreto contenuto normativo, volere qualificare il progetto come ‘Norme sui limiti alla libertà religiosa’, il che è discutibile. In particolare l’art. 13 richiama una norma il cui contenuto è il seguente: “La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere sottoposta unicamente alle restrizioni previste dalla legge e che siano necessarie per la tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico e della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali”. In sostanza la precisazione introdotta nell’art. 13 si risolve in una tautologia: la legge afferma che le affissioni e le pubblicazioni sono libere, purché non contrarie alla legge. E, tuttavia, la formulazione dell’articolo, piuttosto oscura, rischia di configurare forme di censura preventiva. Sarebbe meglio allora chiarire nel testo legislativo quali restrizioni possano essere apportate alla libertà religiosa, nello spirito dell’art. 18 del Patto e delle molte disposizioni internazionali analoghe (si veda il quasi identico art. 9 comma 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Analoghe osservazioni possono essere inoltre formulate per l’art. 11, di cui è comunque apprezzabile il richiamo al rispetto dei diritti e delle libertà delle altre confessioni religiose.
Art. 24. Il disegno di legge governativo prevedeva che associazioni e fondazioni con finalità di religione o di culto (diverse dalle confessioni religiose o enti esponenziali previsti dagli articoli 15-21) potessero ottenere il riconoscimento della personalità giuridica con le norme relative alle persone giuridiche private. Il testo approvato dalla Commissione capovolge il concetto, prevedendo che esse ottengano la personalità giuridica con le modalità – ben più complesse – previste per le confessioni o enti esponenziali. La procedura aggravata trova giustificazione per queste ultime, che vengono ad esercitare un ruolo particolare, tra cui la possibile stipula di una intesa con lo Stato. Ma per le semplici associazioni e fondazioni che hanno fine di religione e di culto, magari congiuntamente ad altri fini, una speciale procedura per ottenere capacità giuridica pare contrastare direttamente con l’art. 20 della Costituzione che vieta appunto questa diversificazione: ”Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.
Art. 27. Viene introdotto l’obbligo di iscrizione al Fondo speciale di Previdenza per tutti i ministri di culto. Sin dagli anni ’70, tale iscrizione era negoziata da ciascuna confessione religiosa con le cosiddette ’piccole intese’. Desta dunque sorpresa l’abolizione di un antichissimo strumento bilaterale. Tanto più che esistono confessioni religiose che non si avvalgono di ‘ministri professionisti’, retribuiti dalla confessione. Anzi, talora ciò è proprio escluso dalle caratteristiche della confessione. L’obbligo di iscrizione al Fondo speciale per chi non vive della ‘professione’ di ministro di culto ed è verosimilmente iscritto ad altra forma di assicurazione sociale obbligatoria, viola la libertà religiosa; e soprattutto configura uno speciale gravame fiscale imposto solo sull’attività religiosa, in contrasto con il citato art. 20 della Costituzione.
Art. 31. Il nuovo comma 3 di questo articolo è una ulteriore prova della volontà di limitare le libertà previste dalla Costituzione, introducendo un limite al contenuto delle intese. Ma qui la norma sembra addirittura presupporre che, oltre alla confessione interessata, anche il governo e il Parlamento della Repubblica abbiano intenzione di approvare disposizioni contrarie all’ordinamento giuridico italiano, ovvero lesive dei diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali. Fortunatamente, l’ordinamento giuridico italiano prevede rimedi a tali violazioni, senza che sia necessario ribadirli in una legge ordinaria.
Ma, oltre a queste e altre osservazioni “tecniche”, le confessioni religiose di minoranza rappresentate dalla Commissione delle Chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato, rilevano che l’insieme del progetto, così come modificato, sembra dare l’impressione che la libertà, in primo luogo quella religiosa, sia vista come un pericolo da scongiurare. Ben comprendiamo le preoccupazioni sollevate dal terrorismo internazionale o da degenerazioni di movimenti pseudo - religiosi. Ma certo la libertà di tutti, le minoranze e le stesse maggioranze, è un bene che deve essere perseguito… Il testo della norma, come oggi configurato, sembra configurare un passo indietro anche rispetto alla situazione esistente. E’ meglio la legislazione del 1929-30, così come modificata e interpretata negli ultimi decenni, di una normativa confusa che rischia di porsi in contrasto con la Costituzione, con i documenti internazionali ed europei sui diritti fondamentali e con la nobile tradizione di libertà religiosa che ha caratterizzato la recente Storia italiana.


Presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
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