Quando si parla
d'identità si fa riferimento, in genere, a qualcosa che ha a che fare con una tradizione filosofica, politica, religiosa o più genericamente culturale. Ma in realtà, anche culture e tradizioni subiscono un processo dinamico di trasformazione. Le culture, seppur lentamente,
si evolvono, assumendo in sé nuovi elementi e rinunciando ad altri. La differenza tra l'essere
conservatori oppure
progressisti, in linea di principio, è esattamente questa: i primi tendono a difendere e a custodire alcuni
valori; i secondi, al contrario, li
'mutuano', li modificano, li rielaborano e li aggiornano. Ciò significa forse che chi è
progressista ha sempre
ragione rispetto a chi, invece, resta immobile in difesa delle proprie convinzioni?
Assolutamente no: anche un
conservatore può benissimo rielaborare il proprio pensiero, senza che ciò provochi lo scandalo di qualcuno. Più semplicemente, un
conservatore deve sapere quali princìpi è bene continuare a
conservare e quali, invece, debba
archiviare in quanto valori ormai obsoleti o
'inattuali'. Allo stesso modo - e a maggior ragione - una cultura, una tradizione e
un'identità progressista deve saper sempre individuare
nuove vie, per affermare la validità dei suoi princìpi. Quel che conta veramente, in tali processi, è
l'assunzione di responsabilità rispetto a quel che si sceglie di modificare, di cambiare o di riformare. Il
principio di responsabilità rappresenta, infatti, il primo elemento che connota un'identità: ammettere di aver
sbagliato nel compiere una scelta o nell'aver presentato un'ipotesi rivelatasi infondata, dovrebbe essere considerato un comportamento da tenere in considerazione. Invece, questo non avviene: in genere, chi ha
sbagliato, oppure ammette di esser stato indotto da elementi puramente apparenti verso considerazioni
infondate, nel nostro tipo di società viene considerato un
'non vincente', uno sconfitto: uno
'sfigato', per dirla con una terminologia più moderna. Eppure, sono proprio le
sconfitte a preparare le
nuove vittorie, dimostrando l'esistenza di un
secondo principio delle identità: quello
'esperienziale'. Ovvero, il saper tener conto delle
esperienze sbagliate, anche le più
amare, che spesso sono quelle più
preziose, poiché cariche di insegnamenti. Tale
principio di esperienza consente di aprire una nuova fase di
sviluppo di
un'identità, che dunque si connota di un nuovo importante elemento: la
memoria. Una società
senza memoria è sostanzialmente
priva d'identità: non ricordando da dove si proviene, non si può nemmeno sapere chi o cosa si è, cosa si dovrebbe fare e dove si vorrebbe andare. Senza un
passato non si sa neanche quale
futuro si possa raggiungere, o quale
progetto di società si intende proporre ai cittadini. Ma vi è anche un
terzo principio, che consente di dimostrare
l'esistenza di un'identità: quello di
libertà. Questo è il principio più importante, poiché consente di
sperimentare e di
cercare nuove strade, di proporre
tentativi e, persino, di commettere degli
errori. Una società può definirsi compiutamente tale solo quando consente la
libertà di sbagliare, affinché si possa comprendere dove si è preso un abbaglio e si possa dare nuovo impulso ai cambiamenti della società medesima. Possedere un'identità non significa, insomma, proporre
soluzioni facili e
rivoluzionarie, bensì procedere per
tentativi ed
errori, utilizzando il metodo
esperienziale - basato sulla memoria - e assumendosi la
responsabilità di successi e sconfitte. Questi sono i
tre capisaldi fondamentali di un'identità, qualunque essa sia e a qualsiasi tipologia sociologica appartenga. Si tratta di
3 princìpi scientificamente
basilari, che compongono un sistema di valori complessivo, generalmente chiamato
'etica': un'etica della
convinzione, ovviamente, non del
successo. Il successo, infatti, comporta sempre un giudizio tanto assoluto quanto ingiusto: quello di
rimuovere la memoria anche come semplice
metodo esperienziale di cui tener conto; il
successo, inoltre, limita la libertà di perseguire nuove vie senza commettere errori, poiché si rischia di non essere compresi e di non riuscire a mantenere la propria posizione
'vincente'; il
successo, infine, annulla il principio di
responsabilità personale, poiché nella sua
essenzialità 'fatalista', esso tende a trasferire una
'non identità', intestando ogni errore e ogni ingiustizia a fattori
esogeni, esterni alla responsabilità, sfociando spesso
nell'esoterismo e nella
superstizione. Insomma, in una società sana, non avvelenata da
contaminazioni puramente 'formali', giustificazioniste e autoassolutorie, si può
sbagliare rimanendo se stessi, purché l'errore commesso sia mosso da
un'etica della convinzione, cioé da una
'cognizione di causa'. Viceversa, in una
società del successo conta solo
vincere, in tutti i modi e con tutti i mezzi possibili, anche i più sleali e scorretti. Ma non si può sempre vincere, nella vita. E quando giunge il giorno in cui si risulta
sconfitti, si torna a non essere più
nessuno, poiché si perde
l'identità acquisita durante la fase di successo, che dunque si rivela
falsa, che credevamo reale e che, invece, ci era stata semplicemente
assegnata da altri a titolo puramente temporaneo. Ovvero, sino a quando si è riusciti a confermare il proprio
successo. Il quale, in realtà, non è altro che l'altra faccia della
persecuzione.PER LEGGERE LA NOSTRA RIVISTA MENSILE CLICCARE QUI
(editoriale tratto dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine' n. 46 - marzo 2019)