E’ notizia di questi giorni, come riportato nella relazione consegnata in
parlamento, che secondo i
servizi segreti italiani vi sia il rischio di un aumento degli
episodi d’intolleranza nei confronti degli
stranieri, in vista delle prossime
elezioni europee. In questo periodo storico, assistiamo pressoché impotenti al riemergere di atteggiamenti
discriminatori e
razzisti, che in molti, illudendosi, credevano ormai
scomparsi. La realtà ci sta insegnando, invece, che il
pregiudizio legato al
colore della pelle si era solo
‘assopito’. Fino a qualche anno fa, tali sentimenti erano solamente celati dietro la maschera del
‘perbenismo’. Magari si era
intimamente razzisti, ma per vergogna non ci si azzardava a manifestarlo apertamente. Con la crescita delle
istanze populiste e, soprattutto,
sovraniste nell’ambito della
politica internazionale, si sono venute a creare le condizioni ideali per il rinfocolarsi
dell’odio razziale. Certo, i leader non si dichiarano apertamente, ma una linea politica votata alla chiusura dei confini o dei
porti, nel caso
dell’Italia, conduce all’inevitabile conseguente accrescimento
dell’isteria collettiva basata su un fondamento tutto da dimostrare: il diverso e lo straniero sono un
pericolo. E’ questa una politica dei consensi che fa leva
sull’ignoranza e contraddice i
valori che sono stati alla base della formazione culturale della generazione di chi scrive. Ci sembra, così, che venga a tramontare il sogno di
un’Europa libera, senza barriere e confini, in cui gli scambi e la libera circolazione delle idee fossero portatori di
crescita e di
arricchimento culturale. La guerra in
Siria, i delicati equilibri in
Medio Oriente, la
Brexit e il
muro tra
Stati Uniti e
Messico non sono che alcuni esempi di una situazione complessiva che rende manifesto il declino del mito di un
mondo globalizzato. In tale contesto, la
cultura sembra essere una dei pochi strumenti a disposizione per contrastare il sempre maggiore pericolo della
deriva razzista. Per questo motivo, acquista un ancora maggiore significato simbolico
l’Oscar assegnato, qualche giorno fa, a
‘Green Book’: il film, diretto da
Peter Farrely, che racconta la vera storia di un’amicizia nata negli
anni ’60 del secolo scorso in
America tra il
‘buttafuori’ italoamericano
Tony Lip (interpretato da
Viggo Mortensen) e il pianista classico afroamericano
Don Shirley (magistralmente impersonato sul grande schermo da
Mahershala Ali, il quale, con questa interpretazione, ha ottenuto la sua seconda statuetta, dopo quella ricevuta per il film
Moonlight). I due protagonisti sono il prodotto di ambienti culturali lontanissimi e hanno personalità diverse: il primo è
sboccato, ignorante, iracondo; il secondo, viceversa, è
raffinato, colto, talentuoso. Entrambi sono, loro malgrado, vittime di pregiudizi.
Don Shirley è un pianista classico che, da
‘enfant prodige’, ha ricevuto una formazione in
Russia. Il suo è un talento universalmente riconosciuto: gira il mondo, è ricco, ma in fondo rimane un
emarginato sociale, poiché non appartiene pienamente a nessun contesto, né a quello di
provenienza, né tantomeno all’ambiente della
comunità bianca per la quale si esibisce.
Tony Lip, dal canto suo, è bloccato nell’atteggiamento stereotipato
dell’italoamericano: vive entro i confini della comunità di appartenenza ed è costretto ad arrangiarsi per poter mantenere la propria famiglia. Un tour negli
Stati del sud fornisce ai due protagonisti l’occasione per conoscersi, superare i pregiudizi ed elevarsi culturalmente a un grado superiore (
Green Book, il titolo della pellicola, si riferisce alla
‘guida verde’ su cui erano segnalati, sul territorio americano, alberghi e ristoranti nei quali erano accettate le persone di colore). Un
‘road movie’ delicato, spassoso, toccante ed estremamente attuale. Non è difficile rapportare le
vicende di discriminazione di cui è vittima
Don Shirley a quanto leggiamo e assistiamo nella vita contemporanea, nonostante i tanti passi fatti avanti nel segno dell’integrazione. La regia, l’interpretazione, i costumi e le musiche fanno di
'Green Book' un
film memorabile, la cui profondità è controbilanciata da un coinvolgente
umorismo, che ne accentua la fruibilità. L’opera cinematografica è profondamente radicata nel contesto socio-politico e culturale
americano, sia in relazione al tempo in cui si svolge la vicenda, sia nel contesto contemporaneo del dibattito sulle
questioni razziali. Ma essa racconta una
storia universale. L’amicizia e lo sforzo compiuto nel reciproco accostamento sono elementi che conducono (i protagonisti e il pubblico) alla comprensione della
futilità e della
stupidità dei
pregiudizi attorno alla
razza e al
colore della pelle. Questioni che dovremmo aver già superato da tempo, ma che sono ancora qui a
perseguitarci.