I genitori che dopo vari tentativi di riappacificazione decidono irrimediabilmente di separarsi per varie incomprensioni, in genere lo fanno per voltare definitivamente
'pagina'. Ma troppo spesso, questa
'pagina' schiaccia i figli della coppia, quando ci sono, andando a produrre in questi delle disfunzioni psicologiche e psichiche. La chiusura di una relazione è dolorosa, sia per chi la decide, sia per chi la subisce. Sia se essa è
condivisa, sia se
non lo è. E i figli avvertono questa
'tragedia' nella vita dei loro genitori e se ne fanno psicologicamente carico. Eppure, il padre ha sempre svolto, nei confronti del bambino, la funzione di organizzatore morale e socializzante. La
figura paterna, infatti, entra in modo determinante nella vita del bambino già verso la fine del secondo anno di vita. Ovvero, proprio all'inizio delle fasi che porteranno il bambino a superare il
complesso 'edipico'. Il bambino vede il padre come una autorità, ambita e amata dal desiderio materno. Il rapporto diadico
'madre-figlio' si trasforma nel rapporto triangolare
'madre-padre-figlio'. È qui che inizia il vero
complesso edipico, durante il quale il bambino desidera sostituirsi al padre nel rapporto con la madre e, contemporaneamente, teme che il padre, geloso, possa punirlo in qualche modo. Subentra allora nel bambino l'angoscia di
castrazione, che fa sì che il minore rimuova l'amore per la madre, trasformandolo in tenerezza, rimuovendo al contempo
l'ostilità verso il padre identificandosi in lui. Si ha così il superamento del
complesso edipico e il formarsi del
'super io', che costituisce la futura
coscienza morale dell'individuo stesso. In sostanza, il padre è il secondo modello del bambino, in quanto gli facilita l'apprendimento morale e sociale al fine di rassicurarlo, aiutandolo a inserirsi nella realtà della vita. Nella fase finale della
crisi edipica si sviluppa, infatti, il
senso sociale del bambino. L'assenza della figura paterna produce
regressione della maturità e
disorientamento. Squilibri affettivi che lo inducono alla ricerca di un individuo spesso più grande, per avere affetto. Il concetto di bene e di male si consolida, nel bambino, attraverso il
padre. E nell'adolescenza, quando il ragazzo deve costruirsi una propria
identità, diversa dai modelli che fino a quel momento ha imitato, affiorano drammaticamente tutte le carenze patologiche che ci sono state nei periodi precedenti. La
disgregazione della famiglia nel
mondo 'moderno', con separazioni e divorzi, nonché il
disorientamento degli adulti stessi, che non hanno più
modelli da trasmettere ai loro figli, ha fatto
sbiadire la figura del padre come persona rassicuratrice e protettrice. Tutto ciò ha come risultato la fissazione, o il
'blocco', del bambino agli
stadi regressivi, con la conseguenza di provocare
disfunzioni psicologiche che si trascinano nell'età adulta. Conviene, perciò, dopo esserci dedicati alla
distruzione del nucleo genitoriale, andare a invadere anche quello dei nostri figli, immensamente più delicato? Un tempo si diceva:
"Restiamo uniti per i nostri figli". Oggi, invece, ce ne
'freghiamo' altamente. È questo il giusto comportamento da mantenere? Oppure, siamo ormai di fronte alla grande
vergogna sociale di una
società alla deriva? Tutta questa premessa potrebbe far intendere che siamo improvisamente divenuti
contrari allo strumento del divorzio, ma le cose non stanno così. Al di là di ogni
ipocrisia, se due persone non si amano più è giusto che si
separarino. Ed è anche corretto, dopo alcuni anni,
divorziare. La
maturità adulta serve esattamente a questo: a comprendere che
un amore può anche finire, che il
sogno della
famiglia perfetta, apologetica e immodificabile era, per l'appunto,
solamente un sogno, anche un po'
ingenuo. Certamente, non è giusto che di questo ne debbano
soffrire i nostri
figli. Ma per insegnare pure a loro che debbono sapersi
gestire anche nei momenti
difficili dobbiamo comunicare, attraverso il nostro comportamento, che possiamo
uscire a 'testa alta' anche dalle situazioni più dolorose e complesse. Molte
ex coppie, dopo aver
divorziato, scoprono di essere diventati
buoni amici. E molti padri, avendo dimostrato
maturità e
voglia di ricominciare da capo, pur avendo perso un
amore importante hanno guadagnato la
stima della loro
ex compagna. E molte volte, anche quella dei propri
figli. Quando le tempeste si placano e le nebbie si diradano, tutto comincia ad apparire più chiaro. Ma si tratta di un
processo interiore, individuale, di natura
esperienziale e
personale. Un processo di maturazione nel quale lo
Stato, le
istituzioni e il
giudice che ha deciso come e a chi affidare i
figli possono solamente
avviare, secondo una funzione di mero
indirizzo. Servono, dunque, margini di
riflessione, di
razionalità, di
avviamento verso una nuova vita, in maniera tale che i nostri figli non soffrano più di tanto. Imporre per legge una
parità astratta degli affidi, come nel caso del
'ddl Pillon', finisce col limitare questo processo di
maturazione individuale, poiché toglie al giudice la facoltà di
analizzare il caso concreto nella sua specificità, nel tentativo di cominciare sin da subito a ridurre le cause principali di ogni
conflittualità. La nostra
auto-organizzazione dev'essere una qualità che nasce
da noi stessi. E non può essere
imposta da una norma, la quale rischia, invece, di
forzare le situazioni. Se qualcuno proprio non ce la fa a
maturare e a
ricostruirsi una nuova identità è inutile
imporgli delle regole di comportamento da
Stato etico, perché chi passa la propria vita a
cercarsi un'etica dimostra non soltanto di
non possederla, ma persino di
non conoscerla affatto come valore di comportamento civile. Impedire a un giudice di
sottrarre i figli a uno dei due genitori significa mettere a rischio lo
sviluppo e la
crescita dei soggetti più espostii, sino a generare un vero e proprio
'sdoppiamento' della sua personalità adulta, soprattutto in quei casi in cui uno dei due genitori proprio non riesca a liberarsi dalle
catene con le quali si è
auto-imprigionato. Imporre dall'alto una
'bigenitorialità perfetta', come se questa esistesse realmente, significa non aver
capito nulla della vita reale delle persone e dei cittadini. E significa non essere nemmeno nelle condizioni di poter
legiferare. La nostra società, già di per sé, non è molto
equilibrata. Ma decidere scientemente di generare
future generazioni di cittadini ancor più 'matti', o con maggiori problemi rispetto a quelli da noi già
superati a fatica, significa
tornare indietro rispetto a tutto quel che la
modernità ci ha insegnato. Vuol dire chiedere al cittadino di
chiudersi in se stesso anche quando non c'è alcun motivo, né bisogno, per farlo, insegnandogli a
fuggire dalla realtà, come se tutto ciò che proviene dall'esterno fosse
negativo a prescindere. Significa stimolare una
diffidenza e una
sfiducia nei confronti del prossimo che sono l'esatto contrario non soltanto della
fede, ma persino rispetto a ogni altra
'scala di valori', a qualsiasi
etica della convinzione. Si tratta di una condanna al
qualunquismo privo d'identità: una pena terribile, che nessuno dovrebbe essere mai messo nelle condizioni di
comminare. Nemmeno inconsapevolmente.
Nemmeno in buona fede.