Rimasi sconvolto, quando
Andrea Ranisi perse la vita: lo consideravo un ragazzo indistruttibile. A
30 anni dalla sua scomparsa, ricordo che, per la prima volta, mi resi conto di cosa significasse morire a soli
23 anni, come accaduto a lui. Un ragazzo normale, come tanti, immerso in un contesto prevedibile, del quale non si vergognava affatto. La notte in cui se ne andò, stavo dormendo completamente nudo, immerso nel tiepido ottobre romano. Ma qualcuno, o qualcosa, mi svegliò. E subito compresi cos'era accaduto. Non c'era nessuno nella mia stanza, né faceva freddo. Eppure, qualcuno era venuto a parlarmi nella notte. E ancora oggi, resto assolutamente convinto che
fosse lui. Era passato a darmi un
ultimo saluto, a dirmi che doveva andare via, probabilmente scavalcando la mia finestra, com'era solito fare ogni volta. In quell'epoca della mia vita, avevo trascorso più di
5 anni a metabolizzare la morte di mio padre. Utilizzai tutto, pur di dimenticare il dramma che avevo vissuto sin dall'infanzia, passata a combattere un
'demone' come quello
dell'alcolismo: viaggi in moto, ragazze e ragazzine,
'sbronze' e
divertimenti. Ma tutto si chiuse nella notte in cui dovetti salutare, per l'ultima volta,
Andrea Ranisi: l'amico che mi era stato vicino negli anni più difficili della mia vita. Fu esattamente questa la frase che dissi piangendo, da solo nell'oscurità:
"No, Andrea: tu sei l'amico della mia giovinezza. Non puoi andartene così". Già poco senso aveva avuto la morte di
mio padre. Ma ancora meno l'aveva quella del
mio migliore amico. Il ragazzo più sfortunato del nostro gruppo, che tuttavia era il vero
'collante' tra tutti noi. Se qualcuno stava attraversando un momento difficile, poiché deluso da un
amore giovanile, oppure per
gravi problemi familiari, per lui diventava prioritario che noi tutti ci occupassimo di chi, in quel momento, era in difficoltà, impedendogli di mettersi nei guai. Non sapeva giocare a calcio ed era negato per ogni attività sportiva. Eppure, l'arma dei
Carabinieri non aveva tentennato un solo secondo nell'arruolarlo tra i suoi
effettivi. Scoprii dopo, quando venni aggregato alla
Legione Carabinieri di
Bologna, il perché. La
'benemerita' cerca sempre ragazzi così: non eccezionali per le loro qualità individuali, ma estremamente
preziosi nel lavoro di
squadra o di
gruppo. Io, allora, avevo già ben chiaro in mente cosa volessi fare nella vita. E cioè, esattamente quel che sto facendo oggi: un
privilegio non di poco conto, soprattutto di questi tempi.
Andrea, invece, no: si era iscritto a
Scienze politiche insieme al sottoscritto, ma non aveva potuto sostenere alcun esame. La
sopravvivenza era il suo problema principale, la sua
esigenza primaria. Così cominciò il periodo in cui si era messo a fare il
'Pony Express': un'occupazione giovanile che andava di moda, negli
anni '80. E tutto quel che guadagnava, serviva per riuscire sempre a offrire una birra a un amico, per mettere
benzina e visitare una città
dell'Italia centrale, per recarsi al
'Motor show' di
Bologna o al
Salone internazionale dell'automobile di
Torino. Perché erano i
motori, la sua vera passione: le
motociclette di grossa cilindrata e le
autovetture di tutti i tipi, di cui conosceva tutto. Una sera toccò a lui essere assistito, in seguito a una
ubriacatura giovanile. E lungo la strada di ritorno verso casa cominciò a prendere a calci tutte le
automobili che giudicava
inguardabili, oltre che
inacquistabili. Ce l'aveva
'a morte', in particolare, con le
Austin 'Allegro': un tipo di vetturetta talmente
'brutta' che persino la
'Bianchina' del
ragionier Ugo Fantozzi, messa a confronto, faceva un
'figurone', sia per le prestazioni, sia per l'eleganza della linea. Un ragazzo
simpaticissimo. Un amico
indimenticabile, legato agli anni più belli della mia
gioventù. Anni che, quella volta, non mi vennero
rubati. Soprattutto, grazie a lui: un oscuro giovane
Carabiniere, che si chiamava
Andrea Ranisi.