In tempi di
riflessioni estive, veniamo a ribadire alcune condizioni che continuano a
'zavorrare' la nostra situazione economica, che rimane connotata da una
ripresa lentissima, addirittura destinata a
'frenare' nel corso del
2019. La condizione principalmente negativa
dell'Italia, infatti, rimane una
domanda interna insufficiente, sia sul versante dei
beni di consumo, sia su quello degli
investimenti. E' pertanto proprio tale basso livello della
spesa a mantenere inchiodate le nostre
potenzialità occupazionali. Risulta evidente la necessità di una
manovra autunnale in grado di rialimentare la domanda di consumo. Ma questa
manovra può avere successo unicamente
'sforando', temporaneamente, i
parametri di Maastricht, ovvero quel rapporto
deficit/Pil fissato al
3% in base a considerazioni che riteniamo scientificamente corrette solo e unicamente nei termini di un mantenimento oculato della
spesa corrente. In buona sostanza, chi ha un
debito pubblico sotto controllo, come per esempio la
Germania, può tranquillamente attuare
politihe di auterità che mantengano il livello della spesa interna attorno a determinati parametri di equilibrio. Viceversa, per quei Paesi che sono entrati nella cosiddetta
Eurozona dopo lunghi decenni di
spesa pubblica fuori controllo, si ritrova nella condizione di essere impossibilitato a
recuperare facilmente e in tempi brevi la propria condizione debitoria. In tal senso, riteniamo che la
Ue mantenga un'impostazione macroeconomica che discrimina, all'interno
dell'Unione medesima, le economie di
serie 'A', rispetto a quelle di
serie 'B'. Fino a quando un
singolo Stato membro non si ritrova nelle condizioni di poter partecipare alla
categoria superiore, esso si vede costretto a rimanere in quella
inferiore, in una sorta di
'purgatorio perenne'. Noi riteniamo, invece, che
l'Unione europea abbia il compito di combattere, ovviamente senza eccessi, la
staticità economica di un simile
'quadro' complessivo, cercando di favorire la crescita anche negli Stati membri che possiamo considerare, senza vergogna, di
'seconda categoria'. Insomma, a nostro parere, le cosiddette
'politiche di austerità', imposte in questi ultimi decenni dalle forze che appartengono alla famiglia del
Partito popolare europeo, hanno provocato, nelle economie che risultavano già
svantaggiate sin dal
1991, una lunga
virata deflattiva e, in pratica, una condizione complessiva di
stagnazione della
domanda aggregata di consumo. Affermiamo tale diagnosi senza porre minimamente in discussione
l'adesione dell'Italia alla
moneta unica europea: anche una valuta
più debole ed eventualmente
svalutabile, infatti, finirebbe col favorire soprattutto il comparto delle produzioni destinate
all'export, senza far ricadere alcun esito sui nostri
mercati interni, favorendo unicamente alcune categorie produttive da sempre abitutate a sostituire una
domanda debole con quelle più
solvibili e in
buono stato di salute. In quella che possiamo ormai definire
'Eurozona di serie B', riteniamo invece necessario favorire un vero e proprio
piano di investimenti, innanzitutto nella costruzione di opere di interesse collettivo, al fine di offrire ai cittadini maggiori servizi d'istruzione, mobilità e assistenza sanitaria. Ci riferiamo a un
piano d'investimenti europeo, in grado di
'pungolare' l'iniziativa privata, generando nuova occupazione e una rafforzata domanda di consumi per beni e servizi, in grado di portare il Paese, già nel medio periodo, a rientrare nei
parametri originari. Ciò
al fine di tornare ad
abbattere con maggior decisione il
debito pubblico e favorire nuovi
accantonamenti destinati a futuri investimenti, oppure per specifiche situazioni di emergenza (terremoti, cataclismi, rivolgimenti climatici imprevisti). Mantenedo inalterate le attuali condizioni di mercato e difendendo unicamente lo
'status quo', l'Unione europea rischia di mettere se stessa seriamente in
discussione, sia per la mancanza di una
visione economica articolata, sia per le proprie
limitate capacità di
intervento politico. Il capitalismo occidentale vive, ormai da troppo tempo, una fase di
arroccamento difensivo teso a impedire ogni genere di cittadinanza economica a
nuovi operatori emergenti sui mercati. Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all'autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti - e soprattutto degli
'extraprofitti' - da troppo tempo induce a reagire all'atrofia del mercato azionario attraverso
l'indebitamento e la conseguente
emissione di obbligazioni, costringendo le banche ad assorbire i titoli emessi e lo Stato a sottoscrivere nuove forme di deficit.
L'Unione europea deve perciò comprendere che è giunto il momento di
reagire a un simile stato di cose, suggerendo, sostenendo e favorendo più coraggiosamente i singoli Stati membri a effettuare una serie di
investimenti in settori di ricerca più innovativi e avanzati. In caso contrario, la questione più evidente rimane quella di un paziente,
l'Eurozona, che rischia di
morire 'sotto i ferri', in
sala operatoria. E' ormai giunto il momento di
sottoporre l'Europa a un serio
intervento 'clinico-economico', in grado di
risolvere i problemi: il semplice mantenimento conservatore di uno
'status quo' che conviene
solo ad alcuni e
non a tutti, servirà unicamente ad aggravere la patologia, anziché
rimuoverla radicalmente.