Complici le serate calde e luminose e gli impegni meno pressanti, mi è capitato più volte, di recente, di passeggiare la sera nel centro della mia città:
Torino. Un capoluogo di regione
elegante, che ha subito in sé molteplici mutazioni.
Torino è oggi alle prese con un problema che riguarda la nostra epoca, ma che qui pare gridare, sebbene con
'sabaudo understatement', in modo sempre più forte. E questo problema non è, di per sé, la
povertà, ma potrei dire che riguarda il
'concetto' di povertà. Anni fa, la nostra società aveva più pudore in tutto e anche la miseria si autoemarginava. Ed era cosa insolita, specie in
Italia, trovare gente disperata accampata in pieno centro. Non volendo prestare il fianco a facili
strumentalizzazioni classiste, vorrei sgomberare subito il campo e analizzare il
concetto sociale di povertà secondo le due differenti culture che mi hanno cresciuta e le cui idiosincrasie si acuiscono sempre di più con il passare degli anni: quella
italiana e quella
americana. L'americano, grazie soprattutto alla
cultura 'smithiana' dominante, vive la povertà come una
colpa causata dalla mancanza di determinazione, impegno o di abilità personali. In
Italia, invece, il rapporto fra
povertà e
colpa è assai più
sfumato, così come in quasi tutta la
vecchia Europa, dove la
divisione in classi, la tradizione di
immobilismo sociale, la sublimazione delle
spinte sovversive nella speranza di un
'paradiso ultraterreno', hanno radicato il concetto che
essere poveri accade, come la
sordità o una
gamba storta. E che se
accade, essa è un
gravame di cui la struttura sociale deve farsi carico. Ne consegue che, ai nostri occhi, il
povero è semmai un soggetto da cui
distogliere lo sguardo, quando non ai limiti
dell'invisibilità. A quelli di un
americano, invece, è
disprezzabile e
messo all'indice di ciò che non si deve essere. Al netto di tutto questo, in entrambi i casi resta un
senso di vuoto da colmare, dentro di noi e dentro gli individui che cadono in questa condizione: un innegabile problema che dovrebbe coinvolgere la civiltà tutta. A prescindere dalla
"ricerca del colpevole", come diceva
Ford, la cosa fondamentale è trovare un possibile rimedio. E questo potrebbe forse trovarsi nella riscoperta del
senso del 'bello' (il 'kalos' greco), che è uno stato d'animo che va coltivato e che, se sapientemente cresciuto, impedisce al proprio animo e, quindi, alla propria vita,
l'abbandono a se stessi.