Per riuscire a districarsi dall’ingarbugliata
’matassa’ venutasi a creare nel dibattito intorno al cosiddetto
‘relativismo laico’, sarebbe necessario che alcuni
intellettuali ‘teo-con’ si decidessero a
considerare il pensiero come una forma di attività e non come una
supponente esaltazione di universalismi subliminali. L'atto di pensare, infatti, corrisponde ad un
effetto essenziale: quello di garantire
unità sostanziale tra ciò che è pensato e la realtà. Una moderna dialettica laica raggiunge la propria sintesi in
un pensiero autenticamente libero, in cui viene mantenuta
l’umanissima contraddizione tra essere e non-essere. La qual cosa, a sua volta, sottende il continuo divenire umano, la perenne capacità di
rimettere in discussione noi stessi. Oltre che
‘spirituale’, un simile processo analitico è da considerarsi, per definizione,
funzione relativa del pensiero, che dunque non merita
una costante degradazione a mero meccanismo ‘sofistico’ di giustificazione di atti concreti. Il pensiero rappresenta un'attività in perenne rinnovamento: è errato giudicare o
‘misurare’ la sapienza di un individuo in virtù della capienza cumulativa del suo bagaglio culturale, poiché
la vera conoscenza è dettata dal saper
ricondurre alla realtà un’idea originata dal pensiero, ovvero
dall’applicazione quotidiana di principi e valori in grado di ridar forma ad un percorso di spontaneo rinnovamento interiore.
Ecco perché
l'arte, presa di per sé, rappresenta solo il frutto di
libere creazioni soggettive che
non possiedono, né desiderano, alcuna relazione con il mondo materiale. L'arte, infatti, è un concetto presente solamente nel pensiero dell’autore: se essa si realizza in quanto
‘oggetto’, perde la propria
essenza diventando qualcosa di già pensato.
La religione, viceversa, si pone sul versante esattamente opposto, poiché
concentra integralmente nell'oggetto la propria attenzione, rendendo quest’ultimo ‘neutro’, inconoscibile, termine integrale di un rapporto puramente mistico. Pertanto,
il ‘soggetto’, secondo ogni tipo di religione assume una posizione di totale subordinazione rispetto all’oggetto del pensiero.
Una sana
filosofia di frugale umanesimo laico costituisce, insomma,
un momento di sintesi tra soggettività e oggettività, la quale si realizza, sempre mediante il pensiero, sottoforma di
‘etica della convinzione’. In tal modo, essa rappresenta
una forma di conoscenza libera da ogni pregiudizio, poiché il soggetto diviene consapevole che
è lui e lui solo a porre l'oggetto: il pensiero è
continua rigenerazione e pone in secondo piano ogni forma di assolutismo, ogni tipo di ‘chiusura’, ogni schematismo ideologico o dogmatico.
La laicità è origine, non fine, principio ideale, non ‘speculazione machiavellica’. Che la proposizione di una
nuova cultura laica possa essere il frutto di un relativismo figlio della secolarizzazione rappresenta, dunque, concetto assai
opinabile, poiché in realtà essa traccia il solco di una
costante attività di ricerca della verità, nel rifiuto assoluto di ogni
tesi precostituita, pur prendendo atto dell’esistenza di distinti misteri di fede.
La laicità è dunque interesse pubblico non statalismo postmarxista, ovvero
la forma più alta di autoconsapevolezza culturale dello spirito umano, la cui Storia non è altro che
la ricostruzione dei momenti attraverso i quali il pensiero è divenuto cosciente di se stesso. Si può vivere di momenti, di slanci, di passioni o di amori che possono durare anche solo un minuto? Questa è la domanda che terrorizza, oggi, il neomoderatismo ‘teo-con’. Ma un laico, ad una questione di questo genere può solo rispondere
col silenzio, poiché solo tacendo può sconfiggere
il razionalismo materialistico di coloro che, come Ponzio Pilato, sono soliti chiedere stoltamente:
“Che cos’è la verità”?
Articolo tratto dal quotidiano 'L'opinione delle Libertà' del 26 luglio 2005