Le continue
'giravolte' del presidente degli Stati Uniti,
Donald Trump, ormai si commentano da sole. Non si tratta di un
atteggiamento 'preconcetto', da parte nostra: siamo pienamente coscienti del peso e dell'importanza che la
Russia di
Vladimir Putin ha saputo conquistarsi in questi anni. Tuttavia, non si può neanche affermare che il leader russo sia un personaggio che non ami ricorrere alle
'forzature', come avvenuto, per esempio, con l'invasione e relativa annessione della
Crimea. Ogni tanto, il caro
'amico Putin' risolve alcuni problemi
a modo suo. Esattamente come
Donald Trump: probabilmente, è per questo motivo che i due si piacciono così tanto. Sia come sia, non è la
Russia il vero
'pomo' della discordia: dopo neanche
5 minuti di Quebec, anche il nostro nuovo premier,
Giuseppe Conte, lo ha capito al volo. Il vero problema è il
'turbo-propagandismo' di un presidente americano preoccupato unicamente di mantenere il proprio
consenso elettorale. Decidere di far
'saltare' la già complessa costruzione di una
nota congiunta con un
'tweet', inviato
dall'Air Force One mentre era in volo verso
Singapore, in realtà denota - questo sì - un
pregiudizio nei confronti degli
alleati europei. In buona sostanza, si è voluto evitare a tutti i costi un accordo che garantisse la
stabilità dei mercati, poiché in realtà
Donald Trump preferisce esattamente l'opposto: rendere il mondo
instabile per motivi totalmente personali. Il
'casino' come coronamento di una
'visione' della politica, anche di quella internazionale, unicamente incentrata sulla
ricerca ossessiva del consenso. Il presidente americano già da tempo aveva promesso l'innalzamento di
dazi e
tributi a protezione dei suoi
'amici' del settore
dell'acciaio e
dell'alluminio: egli non è affatto con le
'mani libere' come vorrebbe far credere. Il
'protezionismo' è un metodo da teorici dell'instabilità, oltreché
illiberale: nel momento in cui un Paese decide di proteggere i propri mercati interni, finisce col
giustificare il medesimo comportamento da parte di tutti gli altri. Ben presto, osserveremo cosa tutto ciò potrà comportare per gli
Stati Uniti d'America. Infine, l'atteggiamento più sconcertante è l'evidente disgusto nei confronti delle questioni relative ai
cambiamenti climatici. Un tema che gli americani continuano a
sottovalutare pericolosamente, nella convinzione che si voglia impedire loro di continuare a sfruttare le risorse energetiche più inquinanti, come il
carbone e il
petrolio. Gli
Usa vogliono essere liberi di
'strangolare' le
economie altrui, come nel recente caso del
Venezuela, piuttosto che
scendere a 'patti' sulle nuove
'pipelines' provenienti
dall'Asia centrale, o da quel
'Leviathan' di metano individuato sotto il
mar Mediterraneo. Niente da fare: agli americani di passare al
gas non gliene può
'fregare' di meno, anche se si tratta di una risorsa a
basso tasso d'inquinamento per le nostre sempre più caotiche e
'bollenti' città. Ed ecco spiegato, altresì, il
disinteresse verso tutte le tematiche di
riconversione industriale, che dovrebbero essere considerate importantissime per chi afferma di voler
proteggere, anche nel futuro, la propria produzione interna. Attenzione, però: qui non s'intende accusare gli
Stati Uniti di voler
inquinare il mondo secondo un'ottica di
condanna moralista, o
ideologico-culturale. Semplicemente, si sta cercando di
avvertirli di quanto determinate scelte
'isolazioniste' siano
poco lungimiranti, sotto il profilo dell'indirizzo macroeconomico complessivo. Quando il mondo sarà passato al
metano per auto-trazione e al
trasporto elettrico, proteggere la produzione interna con
dazi e
tributi risulterà una
'mossa' totalmente inutile, come quando si chiude una
'stalla' dopo che i
'buoi' son già
fuggiti. E quando si deciderà di eliminarli, ci si accorgerà di aver perduto un
'treno' importantissimo, oltre all'essere costretti a
'svendere' a
prezzi 'stracciati' la propria produzione industriale. Gli
Usa rischiano di scontare un
ritardo in settori produttivi destinati a diventare fondamentali
nell'economia di domani. E non stiamo parlando di un
'domani' genericamente inteso, ma di una
'svolta' praticamente già avvenuta. Le scelte di
Donald Trump stanno accelerando la
fine dell'impero americano. E il suo noto slogan elettorale
"America first", si trasformerà ben presto in un malinconico:
"Bye bye, America". Un
'passaggio' che non porrà solamente il problema del difficile recupero di un
'bisonte' improvvisamente costretto a correre come una
'gazzella', ma anche quello di un mondo in cui il dominio delle potenze asiatiche,
dell'India e della
Cina in particolare, non vedrà presentarsi innanzi a loro alcun interlocutore di rilievo, nessuna potenza con
funzioni di 'contrappeso'. E ciò è un
male in economia, anche quando le cose vanno bene, perché il sistema di mercato è una
funzione matematica - più precisamente
un'equazione - basata su una ricerca di
equilibro anche ai livelli più elevati e importanti. Se le economie asiatiche non troveranno un
interlocutore con cui confrontarsi in termini di
sviluppo, diritti civili e sociali, leale competitività globale, esse si vedranno costrette a rivolgersi altrove, al fine di riuscire a
'piazzare' i propri prodotti ad alto tasso di
innovazione tecnologica. Ma, in fondo, cosa importa tutto questo,
mister Donald Trump? Niente, non è vero? Quand'anche arrivasse quel giorno, lei non sarà più il
presidente degli Stati Uniti. E magari vestirà i
'panni' del
'vecchio saggio', dispensatore di consigli sui
social network e sulle piattaforme delle
web-tv satellitari. Perché il reale obiettivo dell'attuale
irrazionalismo politico, demagogico e
astratto, è quello di
trasformare la politica, anche quella internazionale, in un
'teatrino' di quart'ordine, con la complicità dei popoli e attraverso la loro manipolazione, al fine di
'scaricare' in avanti - e quel che è peggio sugli altri - le conseguenze dei propri
errori.