Dopo il susseguirsi di polemiche contro l'approvazione della
Legge n. 38/2010, che oggi consente la libera scelta verso le cosiddette
'cure palliative', dal
'Centro Studi Livatino' non si muovono critiche a ciò che la promulgazione della norma ha consentito, bensì una riflessione di stampo
epistemogico, che investe la considerazione verso ciò che sarà e costituirà l'applicazione dei nuovi princìpi inseriti nel nostro ordinamento, sia in campo medico, sia in quello assistenziale. Non possiamo escludere, o non considerare, come tale
'passo' rappresenti, innanzitutto, un incontro con i
Paesi extraeuropei e, quindi, una maggiore apertura al ruolo delle
famiglie, importantissimo in certi delicati momenti di scelta, soprattutto per quanto potrebbe riguardare un minore adottato o trasferito all'estero - immaginiamo per motivi di studio - in gravi condizioni. Il riferimento, ovviamente, è relativo a una tematica
'forte', a lungo disprezzata nel nostro Paese, che può apparire come un freddo approccio alla dura realtà della sanità pubblica che si scontra con quelle che sono le esigenze di molti casi
terminali, ossia
conclamati e direttamente valutabili a discrezione degli specialisti, in un luogo esimente ogni possibilità di coinvolgimento degli affetti più cari e in un
momento delicato per ogni persona consapevole e decisa sulla propria esistenza: quella generalmente definita della
'dolce morte'. La
difficoltà del paziente e, soprattutto, del
medico, nonché l'adattamento delle strutture ospedaliere italiane nell'accettazione progressiva di tali procedure, sarà un
lento processo, destinato a permettere una più completa
libertà di espressione del malato. Inoltre, la nuova fattispecie giuridica può rappresentare una garanzia superiore per quei milioni di medici e specialisti italiani, operanti sia fuori che dentro il nostro Paese, finalizzata ad
alleviare gli ultimi e speciali momenti riservati alla
discrezione etica della scelta. Da ciò si può proporre un nuovo punto di partenza e d'incontro: considerare
'vita' la legge entrata in vigore, affidandosi all'impegno dei medici e della sanità pubblica, senza tuttavia escludere un dialogo più aperto con chi si avvale e crede nell'alto
valore deontologico della medicina nella scelta di ciò che verrà considerata come pura, semplice e vera
cura. Perchè
"scegliere per sé e per la vita non sarà mai un limite, ma un incontro". In base a tali considerazioni e all'individuazione di quei
nuovi percorsi che possano rendere più serena e accettabile la fase conclusiva di esistenza in vita di quei pazienti affetti da patologie incurabili, oppure giunti a uno stadio terminale e irreversibile, la questione della cosiddetta
eutanasìa possiamo ancora ritenerla fondata?