La vita umana è frutto di scelte basate sulla
conoscenza. Ciò che ci rende delle
persone migliori è la maturazione della
consapevolezza, l'acquisizione della
memoria storica, la formazione di un nostro
senso critico. Non c'è nulla di più potente della
cultura per riuscire ad abbattere quelle
barriere che arginano lo sviluppo di un Paese, per favorire la
crescita di una
collettività, per limitare le
culture settarie e
malavitose. Non è nemmeno pensabile di poter prescindere dalla
cultura: essa è
l'elemento fondamentale per riuscire a garantire un
futuro alle
giovani generazioni. La formazione scolastica è il punto d'origine di questo delicatissimo processo di crescita culturale. Eppure, dal
1990 a oggi, gli investimenti nell'educazione sono scesi, in Italia, dal
5,4% al
4,5%. Quasi la metà dei nostri istituti scolastici, inoltre, proviene da
investimenti edilizi decisi
prima del 1974. E il processo pedagogico di
'nutrizione culturale' avviene, ancora oggi, attraverso
un insegnante che spiega mentre gli alunni
lo ascoltano. In tal guisa, se chi insegna è una
'bestia', da quell'aula scolastica non potranno che uscire
una trentina di nuove 'bestie'. Solo il
10% dei docenti dichiara di avere
competenze digitali, mentre un istituto su due non ha alcun un collegamento a
internet e
l'informatica ancora non fa parte dei
programmi di
licei e
scuole secondarie, come invece avviene in tutto il resto
d'Europa. Oltre a ciò, quel che non si è minimamente sviluppato, in un Paese da sempre affetto da
pigrizie mentali e
suggestioni ideologiche, è un processo d'integrazione tra i tre principali
'attori' della cultura: la
scuola, le
università e il
mondo del lavoro. Per innescare una dinamica evolutiva maggiormente virtuosa occorre agire verso
tre direzioni, strettamente connesse tra loro:
a) sviluppare nuove e più moderne metodologie d'insegnamento, che tengano conto dei mutamenti generazionali;
b) fornire quelle tecnologie digitali a supporto dell'innovazione basate su
'sistemi aperti', che cioè consentano l'interagibilità totale delle fonti di apprendimento, secondo le
'linee-guida' stabilite
dall'Unione europea; c) convincersi, in sede
europea, della necessità di una concezione
'federale' di accantonamento delle
risorse destinate a questo genere di investimenti, al fine di non
'scaricare' il peso di un simile impegno sui singoli
Stati nazionali, i quali da sempre si dimostrano esperti soprattutto nella creazione di
clientelismi, costi aggiuntivi e innumerevoli
'rivoli' di spreco. Tutto ciò potrebbe strutturalmente favorire un processo culturale di
'comunione' tra le diverse
realtà educative europee. Ma una simile
'architettura' viene profondamente
osteggiata proprio all'interno dei
singoli Stati. Soprattutto in
Italia, dove non si riesce nemmeno a mettersi d'accordo sulle parole
'comunione' e
'comunità', giudicate, persino dagli ambienti
liberali più
'aperti' e
sinceramente democratici, delle vere e proprie
'chiavi di volta' verso un
socialismo burocratizzato, strategicamente alleato con il
neo-confessionalismo cattolico. Ogni
linearità filologica, qui da noi rimane soggetta a speculazioni puramente
formali e
'nominaliste', come se servisse sempre la
parola 'giusta' per riuscire per lo meno a dare il via a un processo di cambiamento qualsiasi. Il vero problema italiano, insomma, rimane una
mentalità che tende a
'sganciare' la
libertà del singolo individuo da ogni vincolo di
interesse generale o
collettivo. La vecchia
'riforma-Gentile' del
1923 si basava su un'idea di
'Stato etico' profondamente
selettiva ed
'elitaria'. Ma ciò ha spesso comportato, nel corso dei decenni, un'eccellente
possibilità d'innesto di
innovativi princìpi pedagogici ed
educativi basati sullo sviluppo di una maggior
capacità auto-organizzativa tra studenti e singoli alunni, sostituendo il vecchio
corporativismo fascista con un'ingegnosa
cultura solidaristica, la quale, in molti casi, raggiungeva l'obiettivo
dell'apprendimento individuale. Il vero problema italiano non è mai stato quello di negare la
'libertà intellettuale' al singolo
studioso o
ricercatore, ma di rendere tale principio complementare con una concezione più generale di
educazione civica e
solidaristica tra i cittadini. Che invece è proprio ciò che subisce
'frenate' potentissime, perché qui da noi deve continuare a dominare quella
logica della 'furbizia' che ha fatto
'strame' di ogni
obiettivo meritocratico. In Italia non avanzano i
migliori, ma i più
ricchi e i più
'furbi', in ogni settore e comparto, a cominciare da quello
universitario. Tutto ciò ha generato il
'caos' al quale stiamo assistendo, in cui vi sono
plurilaureati totalmente privi di una qualsiasi
base di sintassi, incapaci di affrontare dignitosamente persino un
tema in classe del vecchio ciclo scolastico ginnasiale.
L'Italia è vittima di un sistema culturale concepito come mero
'bagaglio formale' e non in quanto patrimonio di
princìpi e di
valori da applicare ogni giorno. Un modello educativo che concepisce il
diploma o la
laurea come semplici punti di arrivo:
'pezzi di carta' da
incorniciare e
appendere al muro. Una mentalità che ci ha condotti, dritti di filato, verso una società
generalista e
superficiale, totalmente imperniata
sull'immagine esteriore, in cui ogni problema si cronicizza proprio a causa di quelle
'contaminazioni formali' più volte paventate proprio da
Giovanni Gentile. Formalismi
retorici ed
eccessi di 'zelo', che finiscono col
nascondere ogni questione sotto
'al tappeto', lasciando ogni cosa sostanzialmente
inaffrontata. Era forse questa
l'Italia a cui pensavano
Alcide De Gasperi e
Luigi Einaudi? Noi crediamo proprio di
no.PER LEGGERE IL NOSTRO MENSILE 'SFOGLIABILE' CLICCARE QUI
Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
(editoriale tratto dal n. 32 della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' - ottobre 2017)