Dopo
20 giorni di programmazione e
150 repliche per
45 spettacoli in concorso provenienti da
Italia, Belgio, Svizzera, Irlanda e
Inghilterra, si è concluso il
Roma Fringe Festival 2017. Una serata calda e partecipata, quella del 21 settembre 2017, in cui sul palco di
Villa Mercede si sono alternati i tre spettacoli finalisti:
'Il piccolo guitto' di e con
Massimiliano Aceti; 'Il circo capovolto' del
Teatro delle Temperie di
Andrea Lupo; 'A sciuquè' di
Ivano Picciallo (Malmand Teatro/i Nuovi Scalzi). Ospiti della serata: il pluripremiato regista di
'Lo chiamavano Jeeg Robot', Gabriele Mainetti, Lillo Petrolo del duo
'Lillo e Greg' e il regista
Luciano Melchionna. Premiato da
Gabriele Mainetti e
Fabio Galadini, direttore artistico dello storico
'Civitafestival', è stato lo spettacolo
'A Sciuquè' di
Ivano Picciallo ad aggiudicarsi il
Premio Miglior Spettacolo del
Roma Fringe Festival 2017. Ecco l'elenco completo dei vincitori delle singole categorie del
Roma Fringe Festival 2017, nel loro corretto ordine di assegnazione:
Miglior Spettacolo 2017'A Sciuquè' di
Ivano Picciallo, Malmand Teatro/i Nuovi Scalzi;Miglior Comedy - Premio Teatri d'Arrembaggio'Aspettando una chiamata' di e con Matteo Cirillo;
Miglior Regia'A sciuquè' di
Ivano Picciallo, Malmand Teatro/i Nuovi Scalzi;Miglior Drammaturgia
'Il circo capovolto' del
Teatro delle Temperie di Andrea Lupo;
Premio della Critica
'Giorgio' della Compagnia Nexus/Garofoli;
Premio del pubblico
'Il circo capovolto' del Teatro delle Temperie di Andrea Lupo;
Premio della Critica 'Periodico Italiano Magazine'
'Aspettando una chiamata' di e con Matteo Cirillo;
Miglior Attore
Andrea Lupo per 'Il circo capovolto'/Teatro delle Temperie;
Miglior Attrice
Caterina Simonelli per 'Real Lear';
Special OFF
'Giorgio' della Compagnia Nexus/Garofoli;
Spirito Fringe
'InFiamma' di Simone Càstano;
Menzione Speciale Laici.it per alti meriti artistici
'The Conductor' di Jared McNeill.
Ecco ora, qui di seguito, le nostre recensioni degli spettacoli tenutisi quest'anno.
Il piccolo guittoChe cos'è un 'guitto'? Massimiliano Aceti cerca di spiegare questo aggettivo così inusuale sul palco del Roma Fringe Festival 2017 attraverso un monologo semi-autobiografico, intitolato, per l'appunto: 'Il piccolo Guitto'. Un termine che, secondo il vocabolario Treccani, sta a indicare qualcuno di "meschino, che vive miseramente". Perché, allora, il protagonista di questa rappresentazione, il piccolo Massimiliano, si presenta come 'guitto'? Perché a lui piace far ridere: farebbe qualsiasi cosa pur di strappare una risata al suo pubblico, sia adattare il Romeo e Giulietta di Shakespeare applicandovi le fantasie sessuali della zia ascoltate di nascosto, sia che si tratti di fare orribili scherzi telefonici all'attempata nonna, in merito alle considerevoli dimensioni "del coso". Un monologo in cui a dominare è la leggerezza, dove il bambino protagonista è così simile a tanti altri che si possono vedere tra i banchi di scuola, o semplicemente ripescare tra i ricordi scolastici di ciascuno. Tutti, a scuola, erano dei 'tipi': quello grande, grosso e 'bambacione'; quello 'bello', dietro al quale tutte le femmine morivano; e, appunto, il 'guitto': il 'giullare' che, pur di far ridere, avrebbe fatto qualsiasi cosa. La leggerezza, un attributo ultimamente assente nella comicità, è la chiave di lettura che fa apprezzare lo sforzo di Massimiliano Aceti di divertire il suo pubblico, sia che si tratti di argomenti leggeri come "la prima cotta", sia che si affrontino momenti gravi, come la morte o l'abbandono. Tutto si può affrontare con una risata: sarà il 'guitto' ad aiutarci a riderne.
(Giorgio Morino)
Prove aperte
Una commedia che dà la possibilità al pubblico di assistere e di capire cosa succede nei giorni antecedenti il debutto di uno spettacolo. Prove aperte, appunto, in cui litigi, incomprensioni, deliri e crisi, sono la costante invariabile. Tre personaggi, un regista e due attori, ripercorrono, attraverso esercizi improbabili, le difficoltà che sta vivendo il mondo della cultura: economiche, personali, fisiche ed emotive. Nulla resta fuori in questo spettacolo, che fa ridere di gusto. Quasi un circo umano, ma che non manca di sottolineare anche una critica alle scuole e alle accademie di recitazione, ai metodi di insegnamento che vengono applicati. Bravi gli artisti in scena, abili nel dare chiarezza di racconto a un'esibizione volutamente confusionaria. Buona la recitazione e la scelta dei tempi, rapidi, ma intervallati, all'occorrenza, da attimi destinati alla meditazione degli attori e anche degli spettatori. Uno spettacolo che trascina e che si fa comprendere anche nei tanti momenti dialettali, complice un simpatico uso smodato ed esasperato del linguaggio del corpo. Divertente.
(Carla De Leo)
L'imbroglietto
Cosa si è disposti a fare quando l'amore per il teatro è grande, ma i soldi in tasca sono pochi? Livia Antonelli, Valerio Puppo e un MacBookPro (un computer portatile, ndr) propongono al pubblico diverse 'variazioni sul tema': corrompere e imbrogliare la sadica bigliettaia (interpretata dal MacBook), con il preciso scopo di entrare a teatro senza tirar fuori i soldi del biglietto. I due personaggi in scena, il cui aspetto è simile a quello dei clown, danno vita a un'esibizione ricca di gag, accelerazioni e decelerazioni nello spazio-tempo e, infine, di viaggi nel tempo: giapponesi judoca, amebe del protozoico, ma anche scimmie, dinosauri e protagonisti di 'Star Trek', sono il cuore di una rappresentazione vivace e divertente, dove il linguaggio è inventato e basato, in primis, sulla mimica e il movimento del corpo. Molto bravi gli artisti in scena, sincroni e coordinati tra loro, convincenti nella recitazione che non ha subito nessuna sbavatura. Accurata e centrata anche la scelta musicale che ha accompagnato la recitazione, fondendosi con essa in un racconto fluido, concluso nel pieno centramento dell'obiettivo: la povera bigliettaia è stata talmente confusa, che alla fine concede l'ingresso gratuito ai due disturbatori. Divertente e coinvolgente, adatto a un pubblico di tutte le età.
(Carla De Leo)
Pollini
Con il termine 'polline' (o microspora o granulo pollinico) si indica, in botanica, con riferimento alle piante che si riproducono attraverso un seme, l'insieme dei gametofiti maschili immaturi, che si presentano sotto forma di una polverina di colore 'giallastro'. La definizione di Wikipedia esprime perfettamente il concetto di amore secondo il testo scritto da Alessia Giovanna Matriciano e interpretato da Ilaria Giorgi e Francesco Guglielmi. Dal titolo alle magliette indossate dai protagonisti, il pubblico intuisce immediatamente che si è davanti a un concetto di coppia che travalica i problemi della vita a due, per esprimere una riflessione più profonda sul confronto tra due individualità profondamente diverse ma in fondo così tremendamente simili. Sul palco, vi è il trionfo della specularità, che si esplica nella messa in scena occupata da due semplici cubi specchiati e dall'abbigliamento identico dei due attori. Quest'ultimi sono vestiti con pantaloni neri e una maglietta bianca molto particolare, che si differenzia soltanto dal disegno degli attributi tipici dei due sessi. La dualità è similitudine e diversità allo stesso tempo: i due amanti sono la faccia della stessa medaglia nella loro affannosa ricerca di completezza e di rifiuto nei confronti del proprio corpo e del suo inevitabile cambiamento. Il disegno femminile del seno riporta al concetto stereotipato di una bellezza prosperosa e voluttuosa, mentre i muscoli addominali sulla maglietta di lui riportano al modello del 'palestrato', tutto muscoli e testosterone. È evidente la critica verso un concetto di bellezza imposto dalla società contemporanea, che ha portato a idealizzare modelli tipici dei corpi femminili e maschili. Ilaria e Francesco riescono a essere se stessi nei loro monologhi, in cui affrontano a cuore aperto le angosce e paure di individui inadatti, apparentemente, a essere amati, perché l'immaginario culturale e sociale sembra porre l'accento sulla corporeità rispetto alla spiritualità. Il monologo femminile colpisce molto per la capacità di ripercorrere con leggerezza la storia e lo sviluppo di una cultura e una società che ha standardizzato il concetto di femminilità nel tempo. Se nel Medioevo, la donna evitava di truccarsi per non privilegiare l'esteriorità rispetto ai valori spirituali, in altri secoli la cosmesi e la scelta dell'abbigliamento è finalizzata a produrre segnali sessuali, che non sono strettamente legati alla riproduzione. In questa continua riformulazione dei ruoli maschili e femminili sembrano ancora persistere le due immagini contrapposte di 'uomo cacciatore' da un lato e 'donna raccoglitrice' dall'altro. Il nodo si scioglie nel finale, dove la seduzione è associata a una riflessione sul concetto di peccato attraverso la metafora della mela e del verme in riferimento alla purezza violata e all'ardente desiderio sessuale. Alcune parti del testo sembrano tratteggiare l'immagine di una moderna Eva che cerca di resistere alle avance sessuali di un Adamo, in realtà profondamente insicuro e timoroso. Le tensioni, gli scontri e le passioni dei due personaggi sono in realtà dei gridi di aiuto che entrambi lanciano per colmare quel bisogno di completezza, chiamato Amore. Testo scorrevole e interpretazione ironica.
(Silvia Mattina)
Mettetevi in fila
Un tentativo di abbattere le barriere delle ipocrisie umane, relativamente ai rapporti interpersonali con specifico riferimento alla sfera sessuale e ai tabù generati da questo modo di pensare finto e perbenista. Protagoniste del monologo sono le donne, presentate appunto come ingabbiate nella rete di aspettative generate da secoli di poetica e narrativa, che le ha costrette a soffocare la loro libertà sessuale e a vergognarsi della propria femminilità. Un racconto che si interseca con l'interazione con il pubblico, con lo scopo di 'punzecchiare' e provocare, stimolare una riflessione, 'scuotendo' il torpore delle menti umane - soprattutto di quelle maschili - avvalendosi di un linguaggio esasperatamente esplicito. Anna Mazzantini domina la scena con 'mestiere', ma il testo del monologo è troppo simile a qualcosa di 'già visto e già sentito', nel quale la risata fa solo 'capolino'.
(Carla De Leo)
Generazioni
Una storia familiare al femminile che ci accompagna per tre generazioni: nonna, figlia e nipote (Rosina, Margherita e Giulia). Un monologo 'agrodolce' che Alessandra Cappuccini porta in scena con un eclettismo efficace. Un excursus in cui il 'fil rouge' è l'amore che ci racconta anche frammenti della 'nostra' storia dalla guerra a oggi, passando per il '68. Pochi i colori contestualizzati come il bianco, simbolo di purezza, e l'arancione, i quali si uniscono agli elementi di scena di cui la Cappuccini si avvale: una cariola, dei libri, un bastone, dei lenzuoli e una chitarra con la quale Giulia, l'ultima voce narrante del testo, diventa 'attrice-cantastorie' in cerca di un suo ruolo in un mondo in cui le capacità personali e aspirazioni difficilmente si allineano. Unico riscatto: l'amore, nel quale ci si riconosce e si viene riconosciuti e dal quale scaturisce l'energia vitale che delimita i contraccolpi della vita. Delicato e spensierato, con sottotesto interessante.
(Annalisa Civitelli)
Il circo capovolto
Una storia toccante quella che porta sul palco del Roma Fringe Festival il Teatro delle Temperie di Bologna, attraverso l'attore Andrea Lupo. La sua è una prova di recitazione notevole, che evidenzia da subito il talento interpretativo nel monologo 'Il circo capovolto', liberamente tratto dal romanzo di Milena Magnani. Si intrecciano due realtà parallele, due generazioni di rom: quella di Branko Hrabal e del nonno Nap'apò. Branko è in fuga dall'Ungheria e si rifugia in un campo rom in Italia. Con sé ha dieci scatoloni, con all'interno quello che rimane del circo ereditato dal nonno. La generazione di Nap'apò è stata costretta a interrompere la propria attività, durante il periodo della dominazione nazista: tutti gli artisti furono rinchiusi in un campo di concentramento e sterminati. Branko si ritrova a ripercorrere le tappe esistenziali della famiglia in una immersione di ricordi spesso drammatici, non facili da raccontare. Quando arriva nel campo è buio e fa freddo e attorno a sé vede soltanto occhi, poi fango, muri e immondizia. Gli occhi sono quelli dei bambini curiosi di capire chi è quell'uomo arrivato da lontano. Vogliono sapere del circo racchiuso negli scatoloni. Branko apre la mente ed il suo cuore e i piccoli vengono travolti da una luce di 'incantamento', non smettono mai di chiedere e ascoltano le vicissitudini della famiglia del nomade. Origini, appartenenza, sangue, sono gli elementi cardine di una favola civile che si sviluppa in sequenze di memoria, una memoria faticosa e delicata, fatta di guerra, fughe, tradimenti, vendette, ma anche gioia e speranza per il futuro. Lupo riesce da unico attore in scena a reggere l'intera struttura dello spettacolo portando lo spettatore a vedere perfettamente le immagini di periodi storici diversi, mantenendo un equilibrio narrativo. Il fascino del circo viene descritto con le sue luci ed i suoi colori, ma anche con le ombre e le sagome oscurate della seconda guerra mondiale. Saranno proprio i bambini del campo, nascosti nelle cantine di un vecchio palazzo abbandonato, a ridare vita a quel circo che Branko ha tanto amato e difeso: un riscatto per la felicità. Un vortice di emozioni si espande fino a raggiungere la sensibilità di chi osserva. Intenso.
(Michela Zanarella)
Romeo era grasso e pelato
L'amore è una tragedia, meno romantica di quel che a volte appare. Con un testo che prende spunto dai classici per approdare al presente, Davide Sacco ci trasporta nei meandri di quel che si dice e non si vuole dire sui rapporti fra uomo e donna: l'amore idealizzato al femminile e quello 'materiale' visto con gli occhi e gli atteggiamenti di lui, al di là dell'età o del ceto sociale. Il tentativo di rendere il tutto molto comico non sempre riesce: gli spunti e i 'salti' interpretativi (spesso ben riusciti) delle due attrici in scena, che recitano, cantano e leggono, sono tanti, ma il ritmo è discontinuo. Resta un sottotesto che racconta il maschilismo mascherato dall'ipocrisia soprattutto femminile, che tende a giustificare o a 'sviare' il problema. E forse è qui che la risata si scontra con l'amarezza.
(Francesca Buffo)
InFiamma
Alla quarta sera di programmazione arriva sul palco di questo Fringe (finalmente!) una ventata di 'goliardia off' collettiva. Una messa in scena dinamica, per un testo che interseca più storie, in cui i classici fanno da sfondo alla narrazione delle tribulazioni umane: la vecchiaia 'rimbambitrice', l'amore 'ingannatore', l'immoralità, la paura dei propri limiti. Salti, balli, vendette 'banditesche': una giostra di situazioni suggestive, che al di là del racconto, trasmettono quella sana 'joie di vivre' che uno si attende da una serata a teatro di fine estate. Bello, con un pizzico di idealismo giovanilista che saluta lo spettatore.
(Francesca Buffo)
Real Lear
L'intima tragedia di Re Lear, dal ripudio della figlia ingrata all'impietoso arrivo della vecchiaia che mina la mente e l'autorevolezza, attualizzata in maniera raffinata con un testo che non concede sconti all'implacabilità dei rapporti affettivi, i quali legano, gli uni agli altri, i componenti della famiglia. Caterina Simonelli analizza con impeto ed emotività questo tempo che ci obbliga a correre, le nostre assunzioni di responsabilità inespresse e quelle 'pretese' dagli altri. L'amore che obbliga se stesso a definirsi e a esplicitarsi è un'inutile ridondanza, ma esserne consapevoli non aiuta. L'attrice 'domina' la scena con sicurezza e mastria descrittiva, che arricchisce l'immaginario dello spettatore con un ritmo incalzante. Complesso, sofisticato, ma efficace.
(Francesca Buffo)
Edizione straordinaria
Un monologo per una commedia esilarante e drammatica al contempo, dove il personaggio interpretato da Chiara Catalano, la signorina Marina Maniscalchi De Perugini, di nobile famiglia, esplode nelle diverse voci e interviste di se stessa e a se stessa: stralci della coscienza, deviazioni della psiche, piccole esperienze quotidiane anche con l'analista che, a dire il vero, avrebbe più bisogno lei di incontri, preoccupazioni, desideri, lutti, ricordi, manie di grandezza, momenti di sconforto, conflitti tra l'io, l'es e il super-io, in una sequenza adrenalinica di capriole e giravolte. Il grido giornalistico, "Edizione Straordinaria", riporta alla notizia imprevista, originale, inusuale, fuori dalla norma, che all'improvviso viene resa pubblica. Il testo rievoca spudoratamente le elucubrazioni mentali della 'signorina snob' o 'Cesira la manicure' o 'Sora Cecioni', personaggi tipici inventati da Franca Valeri e non da meno gli atteggiamenti anche tonali nel suo stile inconfondibile di alcuni Tg della indimenticabile Anna Marchesini. Ma ciò non toglie nulla alla duttilità artistica di Chiara Catalano, che ricorda una giovane Lucia Poli. Igor Svanga, alias Pier Paolo Fiorini e Chiara Catalano fanno parte di quella grande fucina artistica voluta da Marco Maltauro, il geniale intrattenitore dei lunedì al teatro 'T', al ponte Testaccio, immancabile tra gli spettatori della 'prima' a Villa Mercede per il Rpma Fringe Festival 2017. Qui l'autore del testo sogghigna, stando alla centralina comandi dello spettacolo, quasi compiacendosi di quanto ha scritto, da vero e proprio cattivissimo me! Cristina Pedetta, a mo' di direttore d'orchestra e con molta eleganza, fa vibrare le corde armoniche vocali e artistiche dell'originale Chiara Catalano, che nell'eco della Valeri, interpreta il personaggio della nobildonna Marina Maniscalchi De Perugini, esaltando la scrittura drammaturgica. Spettacolo da vedere.
(Giuseppe Lorin)
Audizione
Abbiamo assistito a uno spettacolo sconvolgente per la coscienza di oggi, del quotidiano di questo secolo che se ne 'frega' della salute e della salvaguardia di questa. Si pensa alle vaccinazioni obbligatorie ma non si pensa al primo contatto sessuale che potrebbe segnare l'esistenza irrimediabilmente. Stiamo parlando della sieropositività, poiché è questa la tematica di 'Audizione', lo spettacolo teatrale presentato al Roma Fringe Festival, a Villa Mercede, dalla compagnia 'Le Ore Piccole'. In 'Audizioni' si respira ed è tangibile la disperazione per sopravvivere, in una società che non ti offre alcun lavoro se non quello dell'escort, checché ne dicano i ministri che le assunzioni dei giovani sono in ripresa. Il colloquio di lavoro condotto da un manager 'rasta', deve evidenziare e far risaltare la cattiveria dell'essere che si propone al 'lavoro'. Il sieropositivo non deve assolutamente avere coscienza, ma contaminare gli altri come sfogo represso di una società che non l'ha salvaguardato. La paura non deve avere il sopravvento, non vince il più forte ma il più cattivo, poiché la società lo ha tradito. Il nemico è nell'altro e in se stessi, nelle maschere di silenzio, nell'esperienza altrui. È una lotta tra cattivi per assicurarsi il posto più degradante al mondo, a tempo determinato ovviamente, poiché è la malattia che evita all'Inps di pagare le pensioni. Dimenticare, rimuovere dalla propria coscienza che si è malati e untori di una società ormai alla deriva. Uno spettacolo che fa riflettere, ma al contempo distrugge. Da vedere.
(Giuseppe Lorin)
Club 27
La compagnia teatrale artigianale 'I Cani Sciolti', torna per il secondo anno al Roma Fringe Festival e, questa volta, si presenta con uno spettacolo che prende il titolo da un'espressione giornalistica che si riferisce ad alcuni artisti, prevalentemente cantanti, morti all'età di 27 anni. Tutti sono entrati nella leggenda per la loro tragica fine: chi per abuso di alcol o droga, chi per suicidio. Di questo club fanno parte Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jean Michel Basquiat, Jonathan Brandis, Brian Jones e Robert Johnson. E' proprio in una dimensione sospesa, in un limbo esistenziale, che gli artisti proiettano le loro fragilità e inquietudini, accomunati da un malessere dove gli occhi si perdono nel bianco. Questo colore viene associato al dolore: è un bianco che perseguita, che diventa malattia. E' il bianco dell'eroina, della coca, della morte. Il bianco distrugge i confini. E ogni personaggio si trova a condividere un'esperienza del proprio percorso artistico fatta di smarrimento, dannazione, esasperazione. Come in una sorta di 'girone dantesco', gli artisti vivono la propria creatività tra eccessi e abitudini fuori dall'ordinario, incompresi dagli amici, dagli altri e schiavi della libertà. Sono ombre distorte i loro corpi, i pensieri, i sentimenti, in una costante nebbia che li avvolge. Il nascondere la propria fanciullezza agli ammiratori della loro maturità è il gioco che il regista propone agli attori stessi, dispersi tra il pubblico. Una sorpresa che esalta lo spirito dell'arte spesso nascosto tra le convenzioni. I ricordi, insieme al coraggio, sono lo strumento per tentare il cambiamento per non precipitare, ancora una volta, nel nulla. Equilibrate le recitazioni, buono il testo nel complesso: esistenzialista.
(Michela Zanarella)
Il laboratorio della vagina
Uno spettacolo audace, complesso, pregno di profondi significati, quello presentato al Roma Fringe Festival da Patrizia Schiavo e la sua compagnia di donne che animano, da un paio d'anni a questa parte, il nuovo spazio teatrale romano 'Teatrocittà'. Scritto e diretto da Patrizia Schiavo con _un estratto (intenso come 'un pugno allo stomaco') di Marco Palladini_, la rappresentazione inaugura inoltre la rassegna 'Parla con Lei', incentrata sull'universo femminile indagato in tutti i suoi più svariati aspetti. Confluiscono nell'opera, la cui regia è curata in maniera sapiente e dettagliata, diverse forme di teatro, che spaziano dal dramma alla commedia, passando per la denuncia sociale e il teatro civile. Il testo rivela una visione del palco in quanto strumento didattico che, senza pedanteria, informa e 'sdogana' i tabù storici. Una pièce, insomma, che finisce per assolvere una funzione liberatoria, terapeutica. E, infatti, il tema viene affrontato in forma di terapia di gruppo: la vagina, emblema di femminilità, forza e maternità, ma anche motivo d'incomprensione, sottomissione, emarginazione, violenza. Al centro del palco campeggia un idolo femminile primitivo. Ai lati, sette sedie ospitano altrettante attrici/pazienti, ognuna tratteggiata con credibilità secondo la propria personalità e storia. A tessere le fila dell'incontro troviamo la 'dottoressa Schiavo', che accompagna le donne in un percorso rivolto alla liberazione dai tabù, dai luoghi comuni, dall'ignoranza, dalle inibizioni, dalle paure, dal senso di vergogna. Il sesso visto dalla parte delle donne in un viaggio collettivo in cui si alternano, con studiato e vorticoso ritmo, momenti di accesa comicità e attimi di dramma intenso. Le pazienti e, di riflesso, gli spettatori imparano a raccontarsi, a conoscere il proprio corpo e loro stesse, a vivere appieno la propria sessualità. Attraverso diversi racconti ed esperienze, se ne indagano i diversi aspetti: da quelli più piccanti, a quelli più negativi e dolorosi, in un'escalation che conduce fino all'orrore degli stupri di massa perpetrati nel 1992 nella Bosnia orientale: una pulizia etnica condotta tramite pratiche sessuali violente e traumatiche. Da sottolineare, in questo crudo momento della rappresentazione, la vigorosa interpretazione di Patrizia Schiavo: una professionista proveniente dal teatro 'vero', quello con la 'T' maiuscola, che ha colpito duramente il pubblico con una serie di 'pugni allo stomaco' alla Kyra Sedgwick, l'attrice 'newyorkese' protagonista della serie televisiva 'The closer'. Lo spettacolo presenta, inoltre, un fine 'sottotesto': parlare e chiamare le cose col proprio nome significa affrontare con coscienza le problematiche dell'esistenza; vuol dire dotarsi di un prezioso strumento intellettuale col quale vincere la violenza e l'indifferenza. Si percepisce chiaramente come 'Il laboratorio della vagina' sia un lavoro frutto tanto di un'approfondita analisi sulla difficile tematica, della quale vengono fornite numerose informazioni sulla condizione delle donne in tutto il mondo, quanto di una riflessione arguta attorno alle formule espressive del teatro. Pregevole.
(Michele Di Muro)
La favola di Psiche
Un monologo tutto al femminile, in cui si sceglie la via della dissacrazione della celebre favola di Apuleio e si 'pretende' di raccontare la nuda, cruda e triste realtà. La trama rimane fedele all'originale, ma in essa i personaggi sono raccontati da Psiche in modo pittoresco e attuale. Tutto è rovesciato e, all'inizio, lo sviluppo degli eventi e dei componenti della famiglia appare troppo intricato e poco chiaro. Il contesto di appartenenza prende forma gradualmente, quando il padre pugliese dal carattere sensibile e la madre energica e autoritaria cercano, tra mille peripezie, di trovare marito alle tre figlie. La descrizione del ricco palazzo del futuro e dell'anonimo marito sembra un viaggio nel grottesco. Per quasi tutto lo spettacolo, Psiche sembra una nuova 'Alice nel paese delle meraviglie': un'isterica dispensatrice di spietate verità sull'amore. I continui rimandi sessuali, attraverso banali giuochi di parole e l'eccessiva incursione della 'risatina nevrotica' pongono la recitazione su un livello di tonalità sempre molto acceso ed elevato, che allontanano lo spettatore dal coinvolgimento e dall'indagine emotiva del personaggio, che rimane fissato in un'immagine di ingenuità piuttosto consueta, persino puerile. Tuttavia, è apprezzabile lo sforzo della regia di attualizzare il racconto di Apuleio da romanzo di formazione a moderna e disincantata visione dell'amore, in cui in tutta franchezza la bellezza conta più di mille giochi di parole e suggestioni filosofiche. Bizzarro e impertinente.
(Silvia Mattina)
OcchioPin
'OcchioPin' - Pinocchio al contrario - racconta la storia di un giovane adolescente che si pone quesiti: sulla vita, sulle persone, sulla veridicità delle tradizioni, sulle consuetudini, suoi luoghi comuni del nostro vivere. L'adolescente cresce in un 'ambiente coatto': una 'gabbia istituzionale' fatta di ipocrisia e violenza, costruita sulla base di regole che non possono essere messe in discussione, né tantomeno trasgredite. Una realtà omologante per definizione, "perché l'uomo, in fondo, è più sicuro se non sceglie la libertà". E perché il cambiamento è considerato 'dannoso', in quanto mette a repentaglio un delicato equilibrio: quello della città di provincia in cui il ragazzo nasce e cresce. "L'uomo è davvero libero?", si domanda il giovane, o piuttosto rimane 'incastrato' nelle maglie di una società che, con ritmi serratissimi, lo vuole sempre 'scattante' e ligio al dovere? L'essere umano ha ancora una sua individualità o è essenzialmente 'costretto' all'interno di una gabbia che gli impedisce di esprimersi, trasformandolo, giorno dopo giorno, in un automa? Lo spettacolo - con musica rigorosamente dal vivo - prova a raccontare le vicende di un 'nuovo Pinocchio', sicuramente più 'moderno', attraverso una visione completamente ribaltata rispetto al testo 'collodiano'. Lo fa tratteggiando una 'macro-allegoria' della società contemporanea, segnata dalla violenza, dall'assenza di comunicazione tra genitori e figli e dalla moda del 'selfie'. L'intento è sicuramente ammirevole, anche se il riferimento al romanzo di Collodi - seppur evidente nel titolo - si perde, a volte, nella lentezza di alcuni passaggi della rappresentazione, la quale, a tratti, appare 'concettosa' per quanto concerne gli argomenti affrontati. Buone le recitazioni, interessante nel complesso: ambizioso.
(Serena Di Giovanni)
Oscar W
Oscar Wilde è stato, oltre che un geniale scrittore, anche uno scandaloso protagonista del suo tempo. Genio a parte, alcuni suoi ambigui comportamenti scuotevano l'opinione pubblica, marciando contro la morale inglese e la legge, che vietava agli uomini rapporti tra loro. Il monologo, recitato da Mariagrazia Torbidoni, ripercorre i momenti salienti della vita dell'artista irlandese, sottolineandone i pregi - la sua estrema intelligenza, con cui sfidava i benpensanti dell'epoca - e i difetti - intesi come quelli che l'etica dell'Inghilterra di fine ottocento gli riconosceva. L'inizio è frizzante, poi un'aura di severità cala sul palcoscenico. Il momento del processo a Oscar W è quello in cui si dà prova della pochezza di vedute degli inglesi, che non riescono ad analizzare, giudicare e interiorizzare un personaggio le cui gesta lo rendono un vero 'radicale ante litteram'. L'unica sua colpa non fu tanto l'aver amato un uomo, quanto l'essersi voluto esporre all'Inghilterra e ai suoi metri di giudizio 'finto-perbenisti'. Questo è il merito del monologo che, a tratti, è brillante e ben recitato: se si ricalibrassero i tempi di durata potrebbe diventare una piccola 'perla'. Nel complesso è un buon lavoro, che merita la visione di un pubblico attento al sottotesto.
(Gaetano Masismo Macrì)
Maria Padhila
Il monologo di Federica Castellano ha il pregio di trasportarci in un angolo di tempo a metà tra il reale e l'evanescente. Un mondo fatto di ricordi riaffiora sul palco attraverso le parole e le danze di quel personaggio misterioso e, a tratti, malinconico che è Maria Padilha. Cantante di cabaret, ma anche donna abile nelle arti magiche. Dal Brasile, rievocato attraverso le musiche, alla Spagna della corte castigliana, è un andirivieni costruito coi ricordi del personaggio che si anima di voglia di vivere quando è lontano da casa, dalle sue radici (il Brasile) che probabilmente la legano al profondo misticismo di cui quel Paese è intriso e che qui sottilmente viene percepito a tratti. Via dai suoi luoghi di origine, l'artista si lascia attrarre dal peccato e da una frivolezza che sembra domare, transitando da un'avventura a un'altra, amorosa e non. In realtà, anche una donna libera come lei inciampa nell'amore, che tenta di conquistare con la magìa. La conclusione, però, sembra significare che Maria appartiene solo a se stessa, quasi ci fosse una condanna per chi, come lei, ha scelto la notte per vivere e oggi non le restano che i ricordi. Malinconico, evocativo, a tratti naïf.
(Gaetano Massimo Macrì)
Meyamorfosys.0
Metamorfosys.0, scritto e diretto da Vittoria Faro, è uno spettacolo che contiene riferimenti importanti al mondo della fantascienza, del mito e anche alla teoria quantistica dei campi (energia punto zero), per approdare verso una riflessione relativa a una modernità sempre connessa con la tecnologia: un 'mix' micidiale, anche per i più arditi del genere. L'indagine della Faro sul rapporto tra umanità e intelligenza artificiale risulta 'rafferma' in un'estrema lentezza dei gesti, che trasforma la leggerezza non superficiale dell'opera 'ovidiana' in una pièce che apre un varco all'universo virtuale, al non umano, alla vera trasgressione, al realismo. La performance non riscopre il mito, ma lo utilizza in favore di una rivisitazione da film di fantasciMetamorfosy2.jpgenza. Su tutti, il colosso in 3D Avatar e il cult del genere apocalittico della serie Matrix. Come delle larve, tre ragazze prima si dimenano e poi escono dai loro involucri di plastica, dando inizio alla vita con la comparsa dell'homo sapiens. Un gorilla e una ragazza vestita di bianco, in ricordo della famosa 'sposa cadavere' di Tim Burton, rendono potenti i gesti nella loro ripetizione e ritualità, pur generando uno sforzo di decodificazione critica non indifferente, poiché posizionata sui labili confini della 'calma ansiogena' di 'kubrickiana' memoria. Tra corpi seminudi, contrasti cromatici di bianchi e di neri e musiche elettro-dark, la danza continua e si tinge di rosso, attraverso le convulsioni di una donna dalle vesti color passione, che brama una maschera di maiale nero. Una voce fuori campo, 'metallicamente impersonale', ricorda al pubblico che i personaggi non si muovono secondo il libero arbitrio, ma legati a un dio superiore, probabilmente alieno, rappresentato da una 'memoria centrale' supportata dagli antenati e generatrice di nuove forme di conoscenza. Questa 'Cpu' fornisce ai nuovi esseri tutti gli elementi del mito 'ovidiano', condizionandone le azioni. Si giunge, dunque, al concetto di 'caduta' degli esseri umani nella mutevolezza, nel supplizio dell'esistenza, 'nell'eterno divenire dell'eterno', dall'origine del mondo fino ai giorni della società contemporanea. Lo spettacolo rivela un 'horror-vacui' da terzo millennio e un immaginario fantascientifico che, tuttavia, ha il merito di non perdersi in una 'leziosità.0', nel mero simbolismo a ornamento dei gesti. Ciò che rimane è una critica piuttosto pessimista, che considera l'umanità composta da spettri che si muovono in una cornice, al contempo, dark e virtuale, quasi gotica. Spasmodico
.
(Silvia Mattina)
Regine sorelle
Il rimpianto di due sorelle per il lontano idillio dell'infanzia, fatta di giochi e affetti familiari, interrotto dai matrimoni combinati e dal peso delle responsabilità. Da qui prende il via lo spettacolo portato in scena dal Teatro dell'Osso di Napoli al Roma Fringe Festival 2017: un monologo 'storico', scritto da e diretto da Mirko di Martino e ben interpretato da Titti Nuzzolese. L'opera traccia le vicende terrene di Maria Antonietta e Maria Carolina, figlie di Maria Teresa d'Austria, le quali, loro malgrado, sono protagoniste della fine di un'intera epoca. Dedite alle più disparate frivolezze, comprendono troppo tardi il peso del ruolo che la vita ha loro imposto. La prima, che andrà in sposa a Luigi XVI, subirà le conseguenze della Rivoluzione francese, mentre la seconda si unirà a Ferdinando IV re di Napoli e, con l'arrivo di Napoleone, vivrà il pericolo che i suoi figli possano perdere i diritti ereditari al trono. La drammaturgia è interessante: i grandi eventi della Storia e gli intrighi di palazzo fanno da sfondo alle vicende personali. L'autore si è concentrato nella resa degli stati d'animo, della psiche dei diversi personaggi. Si pone in risalto il modo col quale le due protagoniste affrontano diversamente il loro ruolo di donne, mogli, madri e regine in un dialogo a distanza, sul quale pesa il fardello della lontananza, ma anche quello di vivere nell'ombra dei rispettivi potenti mariti, di cui svelano impotenze, incapacità, assolutismo politico, pigrizia mentale. Piuttosto repentina, benché talvolta efficace, la resa dei tanti personaggi che affollano il testo. Oltre alle due regine, infatti, Titti Nuzzolese impersona tutti i membri delle tre famiglie reali, ognuno tratteggiato in maniera distintiva. Brani di musica contemporanea scandiscono i cambi di scena. Viene fuori un apprezzabile affresco 'tragi-comico' di matrice pop sulla monarchia dell'epoca. A dimostrazione di un'attenta ricerca storica, tramite la mimica e i cambi d'accento vengono tratteggiati in maniera piuttosto esaustiva i diversi background culturali che determinano i comportamenti e gli atteggiamenti nelle diverse case monarchiche. Particolarmente spassosa è la ricostruzione delle abitudini e dello stile di vite all'interno della colorita e verace corte napoletana guidata da Ferdinando, personaggio reso in maniera caricaturale e del quale si evidenziano la frivolezza e la scarsa inclinazione alla politica. L'impossibilità dei cambi d'abito, invero molto curati, rende un po' macchinoso il passaggio da una 'figura' all'altra. Probabilmente, il testo avrebbe avuto una maggior resa se interpretato da più attori. Spiritoso.
(Michele Di Muro)
Le notti bianche
Trasposizione con adattamento dell'omonimo romanzo giovanile di Fëdor Dostoevskij, proposto dalla compagnia romana ARTre produzioni, con la regia di Gabriele Granito. Il testo originale presenta in forma di racconto in prima persona la storia dell'incontro avvenuto tra un giovane sognatore 'pietroburghese', timido e impacciato, con la diciassettenne Nasten'ka, angustiata per la prolungata assenza del lontano innamorato e a causa del repressivo e maniacale controllo operato dalla nonna. A fare da sfondo alla vicenda, la città russa in tempo di vacanze estive, descritta con minuzia di particolari. Il tutto si svolge nel breve lasso di tempo scandito da quattro distinte nottate. Romanzo e trasposizione si concentrano sulla diversa natura dei due personaggi, connotati sia dal punto di vista fisico, sia caratteriale. Nel corso dei prolungati incontri, i due si aprono e raccontano ognuno le proprie disavventure. Rispetto all'opera di Dostoevskij, la messa in scena presentata al Roma Fringe Festival 2017 introduce la figura di un giullare mascherato, che funge da narratore e scandisce la sequenza della trasposizione: un esperimento che denota il desiderio di misurarsi con un testo importante in maniera innovativa. Buona l'attenzione ai costumi, così come la restituzione dell'atmosfera che permea il romanzo e la caratterizzazione psicologica dei personaggi. Accademica, l'interpretazione degli attori. Una maggior attenzione dal punto di vista registico avrebbe potuto infondere un maggior ritmo alla messa in scena, che invece non riesce pienamente nel tentativo di coinvolgere emotivamente lo spettatore. L'immersione nel racconto è solo parziale. Migliorabile.
(Michele Di Muro)
Aspettando una chiamata
Matteo Cirillo si esibisce al Roma Fringe Festival 2017 col monologo, 'Aspettando una chiamata', che racconta la vita di tanti giovani in attesa di poter lavorare. Un testo che si sarebbe potuto intitolare anche: 'Le faremo sapere', oppure: 'Vita da precario', per la sua completezza in merito agli altalenanti stati d'animo di tanti ragazzi che oggi soffrono tale condizione. Innanzitutto, occorre richiamare l'attenzione su Matteo Cirillo, che merita pienamente la 'nomination' ufficiale come miglior attore della manifestazione capitolina di quest'anno. Il suo stile risulta dinamico, energico, ricco di trovate fantasiose e divertenti, dotato di un ritmo che trascina fino alla fine. Il ragazzo, dunque, è di talento: nel suo monologo ci sono pochissime pause e l'omaggio alla surreale comicità 'petroliniana' ci è apparso evidente. Il testo, inoltre, è spassoso e possiede anche il merito di non banalizzare strumentalmente la questione di fondo. Al contrario, Cirillo certifica il fallimento di una società di mercato incapace di trovare una collocazione anche ai giovani più capaci, entusiasti, vogliosi di far bene, intelligenti e pieni di risorse. Nei nostri corsi di formazione, nonostante si cerchi di 'vestire' i nostri allievi con 'uniformi professionali' improntare all'umiltà, alla propositività e alla disponibilità - secondo i requisiti che ci vengono deontologicamente richiesti - spesso ci si rende conto di come tutto ciò serva a ben poco, se poi il mercato non dimostra la capacità di assorbire nemmeno gli elementi meglio selezionati. La critica di Cirillo, dunque, non è affatto mal posta, poiché indica, in maniera politicamente corretta, la causa della patologia, benché sembri soffermarsi ironicamente sui sintomi. In realtà, l'indicazione, per esempio, di possibili 'nuovi mestieri', solo apparentemente legati al 'nonsense', è un'accusa precisa e diretta a un mondo dell'imprenditoria italiana incapace di rigenerare i mercati, stimolando nuova domanda. La denuncia di un management ingessato, legato a concezioni obsolete della produttività, quando non malato di assistenzialismo o di 'piraterìa' furfantesca, produce a sua volta effetti devastanti all'interno della società, che rimane 'impantanata' tra i problemi di tutti i giorni. L'aneddoto del cameriere, tanto per fare un nuovo esempio, descrive perfettamente i consueti canoni del ristorante di lusso contrapposti a quelli della popolaresca trattoria romana, segnalando un mondo, quello degli esercizi e della piccola imprenditoria locale, anch'esso fermo ai soliti, banalissimi, luoghi comuni. Cirillo, insomma, mette brillantemente i 'piedi nel piatto' di una critica feroce, tutt'altro che 'buonista' nei confronti di una mentalità completamente 'prona' al mercato, il quale si dimostra sempre pronto a differenziare i suoi prodotti, ma regolarmente a corto di idee su come riformulare la propria offerta di lavoro, chiudendosi in un conservatorismo egoistico incapace di andare oltre la logica dei 'call center'. Matteo Cirillo ha proposto un testo assai più serio di quel che può sembrare a prima vista, limpidissimo nel tracciare quel confine che ha lasciato fuori dalla porta intere generazioni di giovani, a causa di una mancanza di meritocrazìa sconcertante, all'interno di una società 'svuotata' di ogni principio, ormai inerme di fronte al qualunquismo e al 'cialtronismo' più gretto e dilagante.
(Vittorio Lussana)
Da Otello
'Da Otello', liberamente tratto dalla tragedia 'shakespeariana', viene messo in scena dagli allievi della 'Stap Brancaccio' di Roma. Scritta e diretta da Lorenzo Caldarozzi, Alberto Fumagalli, Alice Hardouin Bertini, Federico Gatti, Francesco Massaro e Silvia Parasiliti Collazzo, la rappresentazione vive su un ritmo dinamico. Al Roma Fringe Festival 2017 assistiamo, dunque, a una riscrittura sagace e ironica dell'opera. Le azioni si svolgono in una cucina, che rappresenta Cipro, all'interno della quale gli attori si muovono con dimestichezza, animando il palco con precise e puntuali movenze, oltre cOtello_3.jpghe giocare con dialoghi scorrevoli e ritmati. La pièce, sebbene subisca molti cambi di scena, risulta comunque equilibrata e vivace, poiché gli attori sfruttano lo spazio a tutto tondo. Iago, Otello, Desdemona, Emilia, Rodrigo e Michele Cassio, sono precisamente un padrone di un ristorante e dei cuochi che tramano per il ruolo di primo chef. La trama inviolata, infatti, rimane come sottotesto, mentre il copione subisce una rivisitazione gradevole. Allo spettatore è dato sapere di inganni, intrighi, gelosie e innamoramenti, ma laddove l'autore scrive di sentimenti passionali, struggenti e tormentati, qui taluni stati d'animo ed emozioni sembrano essere rappresentati dai nomi dei piatti più prelibati. Divertenti i riferimenti alle fiabe più conosciute, quali Cenerentola, Biancaneve e i sette nani, Peter Pan e Pollicino, che si uniscono ad alcuni accenni di opere dello stesso Shakespeare. Interessante, ribadiamo, il lavoro sul corpo, facendo sì che il dinamismo reso divenga efficace. Alice Hardouin Bertini, nei panni della protagonista, vanta una mimica facciale rilevante e la tenuta di voce di tutti e sei gli interpreti è ottima. Le azioni costanti sono supportate dal ritmo della narrazione. I suoni, a volte, vengono prodotti tamburellando sulle pentole appese a una griglia sullo sfondo, mentre la musica classica accompagna i momenti non recitati. Instancabile.
(Annalisa Civitelli)
Questa è casa mia
Il 6 aprile 2009, la terra in Abruzzo tremò. L'Aquila e quasi tutte le sue frazioni subirono ingenti danni, dando inizio a un calvario, per la popolazione locale, che ancora oggi non è giunto a conclusione. Su questo evento drammatico, Alessandro Blasioli della compagnia 'Sasiski!' ha costruito il monologo 'Questa è casa mia', riportando il pubblico del Roma Fringe Festival indietro nel tempo, costringendolo a fare i conti con una vicenda che non si è ancora conclusa e che, oltretutto, non si è svolta esattamente come ci hanno raccontato. Il monologo racconta la storia di due amici, Paolo e Marco, aquilano il primo, chietino il secondo, che si ritrovano a confrontarsi con la distruzione del terremoto. Una famiglia, quella di Paolo, costretta a trasferirsi prima negli alberghi della riviera abruzzese, cambiando continuamente stanza perché gli ospiti paganti hanno la precedenza su chi, invece, ha perso la propria casa; il viaggio prosegue poi verso le tendopoli militarizzate, "a metà strada tra un campo profughi e un campo di concentramento"; per poi concludersi, apparentemente, nelle famigerate "casette di legno", addirittura meno sicure delle case crollate del centro città. Perché la ricostruzione, invocata a gran voce per compiacere gli elettori, è si cominciata, ma non nel modo in cui gli aquilani si aspettavano. Più di 60 mila persone che, improvvisamente, si sono sentite dire che la loro casa non era più agibile e che, quindi, sono state trasferite nelle 'new town', senza che però venisse fatto nulla per ricostruire la 'old town'. Proprio su questo vuole focalizzarsi il monologo. E Alessandro Blasioli riesce pienamente a colpire lo spettatore, a volte con gentile ironìa, altre con violenta serietà, mettendolo di fronte alla triste realtà dei fatti. Una realtà fatta di tangenti, appalti manovrati, connivenza delle istituzioni, 'risatine soffocate' al telefono e tanto, tantissimo orgoglio. L'orgoglio degli 'aquilani', che non hanno mai rinunciato a rientrare in possesso delle loro abitazioni, nonostante le pasture incomprensibili della burocrazia, l'indifferenza delle istituzioni e la pietà di circostanza mostrata da chi quella tragedia non l'ha vissuta. 'Questa è casa mia' è un monologo forte e incredibilmente ben scritto, che quasi come un romanzo di formazione utilizza la vicenda dei due giovani protagonisti per raccontare una storia assai più grande e drammatica.
(Giorgio Morino)
Il tempo è fermo
Questo spettacolo, andato in scena al Roma Fringe Festival 2017, è un 'noir' diretto da Pierpaolo Buzza e scritto a quattro mani in collaborazione con Dario Folchi. Protagonisti della pièce sono gli attori Simone Congedo e Silvia Cox. Due giovani, Elisa e Leonardo, si rivedono a casa di lui a due anni di distanza dalla improvvisa rottura del loro rapporto di convivenza. Nessuno dei due ha veramente superato la separazione. L'incontro diventa preziosa occasione per fare definitamente i conti col passato e per giungere, finalmente, a quel necessario confronto che prima non era avvenuto. Passionale lui, più distaccata lei, danno vita a un dialogo dal ritmo piuttosto incalzante, durante il quale, con un misto di nostalgia e rabbia, i due 'ex' indagano lIl_tempo_2.jpge ragioni che hanno portato alla fine della loro relazione. Elisa era troppo esigente, o Leonardo poco presente? Inizia uno scambio di reciproche accuse e confessioni che, in un drammatico crescendo, porta a galla i tradimenti (virtuali e reali), i sentimenti taciuti, le reciproche aspettative rimaste disattese. Lo spettacolo sottintende una riflessione sull'assenza di dialogo e sulla chiusura emotiva, che caratterizzano le relazioni nella società contemporanea. La rabbia e il rancore confluiscono nel rimpianto. E la riappacificazione passa attraverso due colpi di scena. Lo spettacolo è costruito in maniera originale e interessante. La sequenza narrativa è scandita dalla musica. A più riprese torna 'Hyperballad' di Björk: una canzone nella quale l'artista islandese riflette sul tema della rinuncia (alle cose materiali o alla propria esistenza) come viatico per il raggiungimento della felicità nel rapporto col partner. In 'Il tempo è fermo' si percepisce lo sforzo compiuto dall'autore nella caratterizzazione psicologica dei personaggi. Un lavoro di scrittura che, tuttavia, trova un più efficace espletamento nell'interpretazione di Simone Congedo, abilmente calato nella parte. Per questo, il pathos non raggiunge del tutto il livello necessario al pieno coinvolgimento del pubblico. Romantico e amaro.
(Michele Di Muro)
Barocco shocking street
Si tratta di uno spettacolo ironico, portato al Roma Fringe Festival 2017 dal gruppo pesarese: 'Mestieri Misti'. Una serie di 'scenette', se così possiamo definirle, in attesa che qualcuno accetti di lasciarsi recapitare un misterioso pacco, spedito da una strana 'setta' umanitaria, a tutti sconosciuta. Svariati personaggi, tutti interpretati da Clio Gaudenzi e Francesca Montanari, si alternano sul palco trasformato in un appartamento in cui passano personaggi di ogni genere e risma, diventando ben presto una sorta di 'porto di mare'. Tuttavia, tra situazioni grottesche e surrealtà, fanno capolino anche una serie di contenuti niente affatto banali: l'ossessione per il sesso non più giudicato come semplice aspetto dell'amore, ma abbassato a forma di mercanteggiamento ossessivo; due amiche che si parlano addosso senza riuscire ad ascoltarsi, né a comunicare tra loro; uno scrittore-poeta che compone un vero e proprio elogio filosofico della masturbazione in quanto fattore di riequilibrio psico-fisico interiore. Uno spettacolo che, pur utilizzando un 'registro' di ordinaria follìa quotidiana, ha il merito di fotografare una realtà sociale perennemente in bilico tra poesia e squallore. Alla fine, il pacco viene consegnato: si tratta di due semplici banane, che vengono consumate in scena come antipasto di una cena frugale, probabilmente per suggerire una semplicità di comportamenti che appare, ormai, irrimediabilmente perduta. Interessante.
(Andrea Giulia)
La rivoluzione delle sedie
Come affrontare temi delicati come la discriminazione e l'ipocrisia nei confronti dei paraplegici con sensibilità, ma senza cadere nella stucchevole pedanteria? Matteo Nicoletta e Massimiliano Aceti, autori dello spettacolo 'La rivoluzione delle sedie', presentato al Roma Fringe Festival 2017, hanno scelto la strada del teatro comico e surreale. E' una performance che strappa più di una risata, ma lo fa con intelligenza, finendo per sollevare diversi spunti di riflessione. Protagonisti della pièce, diretta da Barbara Alesse, sono Luca e Matteo: il primo è capo del personale dei supermercati Eurospin, mentre il secondo è un cassiere disabile, costretto sulla sedia a rotelle. Di fronte alla richiesta, provocatoriamente assurda, di Matteo, ovvero di poter ottenere un 'girello' che gli permetterebbe di lavorare in piedi come gli altri dipendenti, Luca cerca in un primo momento di essere comprensivo. E' l'ipocrisia del normodotato, che dietro la gentilezza maschera la discriminazione. La situazione degenera quando l'insolenza e arroganza del cassiere sfociano nella violenza fisica, alla quale Luca risponde. Ne consegue un ribaltamento dei ruoli: Matteo viene nominato direttore, mentre Luca finisce a lavorare in magazzino. Qui fa la conoscenza del capo magazziniere, un italiano di colore interpretato da Federico Lima Roque. Quest'ultimo, per il dirigente decaduto, diviene lo strumento col quale riottenere il proprio ruolo all'interno dell'azienda. Facendo leva sui pregiudizi nei confronti delle persone di colore, Luca cerca di manipolare il magazziniere, affinché questi provochi Matteo. Il tentativo fallisce e avrà conseguenze drammatiche. Unico vincitore è Matteo, che come tutti gli esseri umani è capace di compiere gesti dettati da cattiveria e premeditazione. I luoghi comuni riguardanti i comportamenti nei confronti dei disabili e degli immigrati sono parte essenziale del testo, ma proprio attraverso il fare comico e surreale vengono ribaltati dal punto di vista del significato. Si finisce per mettere alla gogna l'atteggiamento discriminatorio e l'ipocrisia dettata dal perbenismo e dall'inutile senso di colpa che, ogni giorno, porta il normodotato ad avere un finto occhio di riguardo nei confronti dei disabili. Una satira pungente, aderente a un linguaggio umoristico tipicamente romano che, figlio della tradizione, mostra punti di contatto col teatro di Ascanio Celestini. L'intesa tra gli attori è ottima, il ritmo incalzante. 'La rivoluzione delle sedie' è uno spettacolo ben costruito e diretto. Esilarante e riflessivo.
(
Michele Di Muro)
Syrius
'Syrius' è la storia di un viaggio, o meglio 'del' viaggio: quello intrapreso dalla protagonista (e unica attrice sul palco) per fuggire da un clima di tensione determinato da una società che non riconosce i suoi diritti. Rasha è una giovane ragazza siriana, un'attivista per la pace, che viene tradotta in carcere a seguito di una manifestazione. È proprio in occasione della sua cattività forzata che la donna decide, a malincuore, di lasciare la sua terra d'origine per cercare un Paese più libero che possa accoglierla. Rasha, però, non abbandona solo il suo Paese, ma anche la famiglia, gli affetti. La sua non è una scelta facile, ma coraggiosa, che accomuna molti giovani siriani di questi ultimi anni, i quali si sforzano di emanciparsi dal loro passato, con risultati nonSyrius_perfomance_art.jpg sempre felici. Se, infatti, la capitale della Siria, Damasco, è spesso apparsa come una città viva, sempre alla moda e parzialmente aperta all'occidente, non si può dire lo stesso della campagna siriana, dove la condizione femminile, in particolar modo, rimane 'aggrappata' a una tradizione che considera la donna inferiore all'uomo, escludendola da determinate attività e vincolandola alla cura della casa e della famiglia. Una condizione di subordinazione che interessa tutti gli aspetti della società. Rasha, in questo senso, rappresenta 'l'altro volto' della Siria: quello delle donne arabe anticonformiste, pronte a combattere per i loro ideali, anche a costo della vita. Donne pronte al sacrificio dell'abbandono dei loro affetti, per potersi sedere in un caffè anche semplicemente per riposarsi o per parlare di lavoro, proprio come le loro colleghe occidentali. La vicenda di Rasha è raccontata, in questa edizione romana del Roma Fringe Festival 2017, attraverso il genere della 'performance art', ove la narrazione si affida alla potenza gestuale del corpo, che si esprime attraverso la danza accompagnata dalla musica, per lo più araba. I movimenti della protagonista verbalizzano i suoi pensieri, che solo in alcuni, sporadici, momenti, vengono effettivamente descritti da una voce narrante esterna, la quale riporta - in maniera molto toccante - le parole scritte da Rasha ai suoi famigliari: un'ipotetica missiva in cui ella racconta e spiega le motivazioni della sua scelta, assieme alle varie tappe del suo difficile itinerario. La relativa brevità della performance rende tuttavia lo spettacolo efficace da un punto di vista narrativo, aiutando il pubblico a cogliere i momenti salienti del percorso della protagonista. Sebbene il racconto sia in gran parte affidato alla comunicazione non verbale, la rappresentazione appare lineare. E la trama è resa comprensibile da uno scheletro narrativo ben preciso, che non si lascia sopraffare dal dato emotivo del tema trattato. Buona la recitazione, coinvolgente il tema: politicamente impegnato.
(Serena Di Giovanni)
Goose
Presentare uno spettacolo ancora in fase di lavorazione è sempre un rischio: il fattore incompiutezza può lasciare lo spettatore sbigottito, come se a tre quarti di visione di un film, questo si interrompesse bruscamente a causa di un black-out. Purtroppo, l'effetto che ha provocato 'Goose' negli spettatori del Roma Fringe Festival è stato esattamente questo. La compagnia svizzera 'Cavalcade En Scène Neuchatel' ha deciso di usare la cornice di Villa Mercede per mostrare le prime fasi di questo loro lavoro, che debutterà ufficialmente a marzo dell'anno prossimo a Milano. Quel che si è visto, due scene complete e tre intermezzi, sembra comunque promettente. Nascoste da delle maschere caricaturali, le ragazze alternano sul palco delle figure che rappresentano il viaggio dell'essere umano dalla nascita alla morte, passando per le fasi fondamentali della presa di coscienza di sé e della vecchiaia. Come già accennato, le scene al momento sono solamente due: l'infanzia, dove un bambino scopre la differenza tra fantasia e realtà e la vecchiaia. Trattandosi di uno spettacolo in maschera, è da evidenziare l'interpretazioneGoose_7.jpg delle tre attrici, Marialice Tagliavini, Elise Perrin, Ladislaja Pietrangeli, che giocano tutte le loro carte nei movimenti caricaturali, quasi come se si ci si trovasse a leggere un fumetto sulla falsa linea dei 'Peanuts'. Uno spunto interessante, che sicuramente sarà approfondito nella versione completa dello spettacolo. Le sole voci che si sentono risultano 'esterne', come un'annuncio in sala o una telefonata, risultando sempre molto fredde, portatrici di messaggi arzigogolati e apparentemente inconcludenti. Una velata critica alla società moderna e all'eccessiva burocratizzazione? Difficile dare una risposta certa. Ciò che è certo è che 'Goose' potrebbe rivelarsi, da quanto mostrato, uno spettacolo molto efficace.
(Giorgio Morino)
The conductor
"A cosa serve l'arte di fronte a tutto questo"? Per comprendere appieno 'The Conductor', lo spettacolo degli inglesi della 'Companie des divina animaux', occorre conoscere la vicenda intorno alla quale quest'eccellente spettacolo si basa. Nel 1941, il compositore russo Dmitrij _ostakovi_ iniziò a lavorare su quella che sarebbe diventata la sua opera più famosa e rappresentata: la Sinfonia n. 7 Op.60 in Do maggiore 'Leningrado'. La composizione di questo capolavoro s'intreccia a doppio filo con la vita del compositore e con l'avanzata delle truppe naziste nella città sovietica. Al momento di presentare una parte del suo lavoro alla radio, nel settembre di quello stesso anno, _ostakovi_ disse: "Ieri mattina ho terminato il secondo movimento della mia nuova sinfonia. Perché ve ne parlo? Lo faccio perché tutti sappiate che, malgrado la minaccia dell'invasione, nella nostra città le cose vanno come sempre". Romanzando gli eventi storici, lo spettacolo vede come protagonista Karl Eliasberg, direttore d'orchestra radiofonico, compagno di studi e vicino di casa di _ostakovi_. Proprio le storie personali di Eliasberg e _ostakovi_ s'intrecciano e fanno da contraltare alle vicende belliche. La rappresentazione procede fluidamente, nonostante l'ostacolo linguistico. Anzi, è apprezzabile lo sforzo di questi attori britannici di recitare alcune parti nella nostra lingua, in modo da facilitare la comprensione al pubblico meno avvezzo all'idioma di sua maestà. Il rapporto burrascoso tra Eliasberg e _ostakovi_ è molto ben costruito: il primo è una figura che vive tempestosamente la propria condizione di 'mediocrità' rispetto al più famoso compositore, il quale è quasi sempre mostrato fermo al suo pianoforte intento a suonare e comporre. Perché comporre musica, in un momento così difficile e tragico? "Perché la musica è la lingua più sincera che conosco". L'artista fa l'unica cosa che sa fare: comunica attraverso la sua arte, che è il solo linguaggio che conosce. Facendolo, egli diventa un testimone del suo tempo: diventa immortale. Karl Eliasberg, suo malgrado e spinto dagli eventi bellici, contribuirà al successo di quest'opera. Lo spettacolo della compagnia inglese merita un plauso particolare per aver raccontato una storia difficile e poco conosciuta, alternando sapientemente la recitazione alla musica. Le note composte da _ostakovi_ colpiscono e raccontano l'altra faccia della medaglia, guadagnandosi il titolo di: "Protagoniste aggiunte". Un'ottima rappresentazione, che ha impreziosito il programma di questo Roma Fringe Festival 2017. Intenso.
(Giorgio Morino)
Giorgio
Tra gli alberi di Villa Mercede, dove si sta tenendo il Roma Fringe Festival 2017, arriva 'Giorgio'. No! Non è né il nome di un uragano, né quello di un personaggio di una qualsiasi compagnia teatrale, ma è proprio il titolo di uno degli spettacoli in gara. Giorgio, interpretato e scritto da Nexus, con l'aiuto regia di Laura Garofoli e Claudia Salvatore e la scenografia di Andrea Simonetti, può essere accostato alla tipologia teatrale della performance congiunta alla video-arte, nella quale vengono coniugate differenti caratteristiche comunicative e linguistiche. Per chi soffre di malinconia dei bei tempi andati, sullo sfondo abbiamo un vero e proprio 'revival' della fine degli anni '80 e degli inizi degli anni '90, che fanno da cornice a un monologo autobiografico nel quale emergono sentimenti alquanto contrastanti: la voglia di evadere di un giovane da una realtà stretta e limitante; il legame con la figura del padre, simbolo di una famiglia ancora plasmata dalla cultura contadina, che accoglie con 'prona ingenutà' tutti quegli elementi indotti da uno sviluppo totalmente consumista e voluttuario, ponendo in relazione consuetudini di provincia come la caccia sportiva, con hobbies e sport estremi. La realtà stretta e limitante è quella di Terni sul finire dello scorso millennio. Il protagonista, insomma, ricorda la propria infanzia fra battute di caccia, cartoni animati di supereroi e film di Schwarzenegger, per poi essere catapultato nella trasformazione dovuta all'adolescenza e al declino post-industriale legato alle acciaierie di Terni, immagine divenuta emblema del regresso economico italiano. "Lui volava, giocava al solitario e fumava; io ballavo, 'chattavo' e scaricavo di tutto". Il testo possiede una struttura drammaturgica inedita, legata a un linguaggio al contempo 'ibrido' e metafisico, discendente diretto del Teatro di parola e dei differenti 'quadri tematici', i quali portano la narrazione a un livello superiore rispetto al semplice racconto di una società caduta in evidente contraddizione. L'interpretazione risponde, dunque, a un registro 'epico' di cui il 'performer' in scena non sempre riesce a coglierne le corrette 'tempistiche' recitative. In ogni caso, si tratta di un'interpretazione che riesce a comunicare al pubblico ammirevole sincerità nel ricostruire gli avvenimenti del passato, riportando alla luce un impolverato archivio di famiglia tramite forme di narrazione alternativa, 'auto-fiction' e un eccellente utilizzo del corpo. Malinconico e irrequieto, a tratti ironico: un lavoro più che discreto.
(Ilaria Cordì)
H
Una persona, un medico, la cui personalità è scissa in due individui distinti: H1, preciso sicuro di sé e con una forte etica del lavoro; H2, vigliacco, spaventato della sua stessa ombra, ma comunque competente nel suo lavoro. Un giorno, queste due personalità si ritrovano a gestire l'archivio dell'ospedale per cui lavorano. Un luogo infernale, nascosto nei seminterrati, vicino ai locali delle caldaie, dove vengono nascosti i più scomodi segreti della clinica: casi di malasanità ai limiti dell'assurdo, medici assenteisti e incompetenti, pazienti bloccati per ore o per giorni in attesa di essere visitati. In questa dimensione onirica simile a un girone infernale, H1 e H2 lavorano senza sosta per nascondere le malefatte dei 'capi', figure invisibili, mai fisicamente presenti, ma la cui aura aleggia costantemente sulle spalle dei protagonisti. Con il passare degli anni, il peso delle malefatte occultate si fa sempre più gravoso per le due personalità di H. Inizia, quindi, un confronto alla fine del quale solo uno dei due rimarrà nell'ospedale. La compagnia 'La Crisalyde' porta sul palco del Roma Fringe Festival 2017 uno spettacolo estremamente valido, ricco di suggestioni sceniche capaci di proiettare lo spettatore nel surreale mondo della malasanità italiana. Un ambiente caratterizzato da segreti e servilismo, in cui non solo i diritti dei malati vengono calpestati, ma i medici stessi si ritrovano a dover scegliere tra il dovere e la certezza del proprio posto di lavoro. Matteo Paino, unico protagonista in scena, si è dimostrato un solido interprete, capace, con le proprie movenze e i convincenti mutamenti di registro vocale, di donare vita alle due personalità di H, rendendoli due esseri chiaramente distinti in un unico corpo. I capovolgimenti di fronte, con l'alternarsi da un protagonista all'altro, non risultano mai confusionari (rischio in cui incappano spesso gli attori che si cimentano ad interpretare personaggi multipli) e l'intera vicenda viene narrata con una passionalità ardente per la tematica trattata. Un riuscito 'mix' tra teatro sociale e dell'assurdo, che sicuramente merita una menzione speciale tra gli spettacoli di questa edizione del Roma Fringe Festival.
(Giorgio Morino)
Opera panica
Ci sono spettacoli che colpiscono, poiché capaci di stimolare la curiosità del pubblico. E' questo il caso di 'Opera panica', presentato quest'anno dalla compagnia 'DoveComeQuando', per la regia di Pietro Dattola. Siamo pienamente nel campo del teatro surreale, innanzitutto, che presuppone un certo grado di riflessione da parte di chi guarda. Un testo di Alejandro Jodorowsky preso 'a segmenti', per costruire uno spettacolo in cui forte si percepisce il senso 'tragicomico' dell'esistenza umana. Episodi come la guerra, l'apocalisse, l'amore ideale, ma anche la scena ironicamente intitolata 'Voglio il tuo posto', scavano a fondo intorno a un'umanità che proprio non riesce a fare i conti con la propria identità, incapace di valutare il presente se non quando tutto risulta irrimediabilmente perduto. Anche il 'segmento' sull'amore idealizzato, in cui una ragazza cerca di far di tutto per aderire all'immagine stucchevolmente 'fissata' nella testa di un maschio rimasto 'ancorato' a una visione piatta e superficiale dell'universo femminile, narra assai più di quanto sembri a prima vista. Insomma, uno spettacolo che, in sede di analisi, consegna contenuti assai validi, ma che mantiene alcune tempistiche 'irregolari'. Nella prima parte, lo spettatore, soprattutto se privo di ogni 'chiave di lettura', non viene aiutato a inquadrare la strutturazione artistica di uno spettacolo evidentemente ancora alla ricerca, esso stesso, di una propria identità. In seguito, quando si comprendono alcuni primi 'barlumi', paradossalmente il ritmo accelera, divenendo, in qualche caso, persino 'repentino'. Ovviamente, siamo nel campo del teatro surreale e tutto questo ci può stare. Tuttavia, non sempre i contenuti arrivano come dovrebbero. E, alla fine, la rappresentazione appare persino un poco 'ridondante'. Curioso.
(Raffaella Ugolini)
Sister(s)
Una storia surreale, ambientata dalla compagnia vicentina 'exvUoto' in un'area di servizio della provincia di Rovigo gestita da due fratelli: Bruno e Allison. Lo stile teatrale della rappresentazione è tipico di un certo 'spirito fringe all'italiana', che convince in quanto inno alla libertà individuale, alle scelte sentite, ai rapporti umani istintivi, in cui le persone si vogliono bene senza troppe parole o 'fronzoli' inutili. L'apparizione religiosa all'interno di un frigorifero prende volutamente in giro una religiosità popolare rimasta a mezza strada tra il sincretismo incoerente e la superstizione. Essendo stressata dalla modernità e da una 'birretta' di troppo, la Madre di Gesù cade in confusione e chiede al fratello maschio, Bruno, di convertirsi e farsi suora. Ciò inserisce improvvisamente la pièce all'interno delle nuove tendenze 'gender', in cui il razzismo comincia a fare capolino in una società marginalizzata, ormai in preda alla confusione. Il legame tra i due fratelli rischia di stravolgersi, ma i ragazzi presto comprendono le arretratezze culturali e mentali di una realtà statica e contraddittoria, imparando ad accettarsi e a rispettarsi, sempre e comunque. Particolare e dissacrante, ma in forme divertenti.
(Chiara Scattone)
Il gigante egoista
La favola di Oscar Wilde risuona quanto mai attuale in una società in cui la paura e l'egoismo del singolo diventano l'unica legge per tutti. La regia di Antonio Tancredi risulta delicatamente poetica nel porre all'attenzione dei più piccoli alcune tematiche profonde, con le quali gli uomini di domani dovranno costantemente fare i conti. La paura dell'ignoto di questo 'Gigante egoista' è talmente grande e radicata da indurlo a costruire un muro, per evitare il contatto con gli altri, sottraendosi così a un confronto con se stesso e con la propria difficoltà di vivere. Il ritmo narrativo è scorrevole e particolarmente gradevole nella caleidosIl_Gigante_egoista_4.jpgcopica interpretazione delle due attrici, Francesca Giacardi e Maria Teresa Giachetta, che giocano con garbo nel ruolo di moderne 'burattinaie' ricorrendo a pupazzi e vari oggetti, nell'alternanza tra narrazione e interpretazione corporea. Le musiche, composte da Claudia Pisani, ricordano le francesi e malinconiche melodie presenti in un'altra fiaba moderna, in cui una bellissima Amélie Poulin propone un modello di dedizione e altruismo completamente agli antipodi rispetto al Gigante di Wilde. Le note e la messa in scena evocano la creatività degli artisti di strada, che conducono gli spettatori a riassaporare un'atmosfera sospesa: una storia di solitudine senza tempo. L'isolamento sembra destinare il personaggio a soccombere sotto il gelo dell'inverno e a rimanere impantanato in un immobilismo esistenziale, fino al bacio di quel bambino capace di scaldare e di far sbocciare in lui un inedito sentimento di amore. In un attimo tutto cambia: la natura può finalmente seguire il suo corso e tutti possono giocare insieme nel giardino di un gigante ormai stanco della tristezza e della solitudine, che dunque preferisce togliere qualsiasi divieto per "permettere di sognare di entrare", per vivere completamente l'amore eterno. La scelta finale del protagonista non ricalca la classica morale cattolica del paradiso presente nell'originale, bensì invita lo spettatore a riflettere sulla fiducia nella comunicazione e sull'importanza della condivisione in quanto fonte di arricchimento dell'anima e del corpo. L'atto del donare disinteressatamente agli altri si può trasformare in una continua avventura alla scoperta di piaceri e dispiaceri, per "una storia che è la vita". Una favola deliziosamente attuale.
(Silvia Mattina)
A sciuqué
Aggiudicatosi l'ultima semifinale del Roma Fringe Festival VI edizione, 'A sciuquè', che in dialetto pugliese vuol dire "a giocare", si dimostra uno spettacolo frizzante e colorato. Si troverà a competere con 'Il circo capovolto' e 'Il piccolo guitto' nell'ultimo appuntamento previsto per il 21 settembre a Villa Mercede in Roma. Presentato dalle compagnie 'L'Malmand' e 'I nuovi scalzi', lo spettacolo è diretto da Ivano Picciallo, il quale con maestrìa lascia muovere sulla scena i personaggi di Nicola, GiaA_sciuque_3.jpgcinto, Ciccio, Peppe e Lucia all'interno di uno spazio vuoto, al fine di raccontare un mondo ormai passato, quello di provincia, fatto di cose semplici e giochi di strada. Si percorrono le fasi della vita con spensieratezza: infanzia, giovinezza e maturità sono rese attraverso una regìa dinamica, che contestualizza le situazioni senza sbavature, facendole immaginare in ogni dettaglio senza mai stancare il pubblico. Adelaide Di Bitonto, Giuseppe Innocente, Igor Petrotto, lo stesso Picciallo e Francesco Zaccaro impersonano i quattro amici e compagni che, sempre insieme, vivono i primi approcci con il sesso e i primi amori, per giungere infine al matrimonio di due di loro. Sul palco gli attori si dimostrano sicuri: i cambi di scena risultano ben congeniati come 'quadri di vita', frutto di una generazione che ha saputo godere di poco e lavorare di fantasìa, trascorrendo il tempo libero in modo semplice. I costumi, dai toni accesi, si uniscono alla vitalità delle espressioni e inquadrano i momenti 'casual' con quelli 'eleganti', sia nelle feste in casa, sia durante il matrimonio. In ogni caso, 'A sciuquè', oltre a celebrare la felicità, l'amore, l'amicizia e il valore del 'buon gioco', denuncia quello che fa 'ammalare'. L'apparente tranquillità viene spezzata dal dramma della 'ludopatìa', che distrae l'uomo portandolo alla follìa del gioco d'azzardo. Subentrano così i prestiti di denaro, le pressioni dei ricatti e dei debiti che la mafia pugliese infligge al singolo, rubandogli beni materiali e affetti. Lo spettacolo fa il 'verso' anche allo stile dei 'musical', sia per gli effetti e le movenze studiati all'unisono, sia per i dialoghi serrati, che donano un ritmo particolare all'insieme. Gli attori sono tutti nelle loro parti: le loro interpretazioni, decisamente versatili, coinvolgono non solo per il timbro vocale, ma anche per l'utilizzo del corpo e nelle espressioni di balli e dolcezze. 'A sciuquè' è un lavoro sintonico e armonico, che si presta a essere rappresentato in ampi spazi affinché le gestualità vivano fluide, così come sono state concepite. Vitale e fotografico.
(Annalisa Civitelli)
Shhh, non lo dire a nessuno
Tutti, da bambini, almeno una volta ci siamo ritrovati a immaginare la nostra vita come una favola. Una serie di imprese, alleati, antagonisti e principi azzurri che avrebbero condotto la nostra vita adulta verso l'agognato: "E vissero per sempre felici e contenti". Ma la vita, quella vera, non è propriamente una favola: a ricordarcelo ci ha pensato Ludovica Bei sul palco del Roma Fringe Festial 2017, con la sua fiaba moderna: 'Shhh, non lo dire a nessuno'. Difficile trovare qualcosa di fuori posto in questo spettacolo: dal primo all'ultimo minuto, la costante è la risata, a volte lievemente accennata, altre volte talmente esplosiva da farti quasi perdere l'equilibrio sulla poltrona. Questo perché Ludovica Bei, regista e attrice, nell'occasione ha saputo coniugare perfettamente l'argomento 'favola' con quella che è una caratteristica tipica della generazione a cavallo tra gli anni '80 e i '90 del secolo scorso: la nostalgia. L'intero spettacolo si basa sulla nostalgia: quella per un tempo passato che sembrava, appunto, magico e fantastico agli occhi ingenui di una bambina che sognava di essere una principessa. La frNon_lo_dire_3.jpgase che dà il titolo a questo lavoro, alla fine ce la siamo sentita dire, quasi tutti noi, almeno una volta, allorquando c'era qualcosa che non si poteva spiegare, o che non si poteva fare perché da bambini non è permesso. Come per esempio bere il caffè, che si cercava di non servire ai più piccoli, ma che poi, inevitabilmente, si ritrovavano a girare il cucchiaino dello zucchero nella tazzina al suono della frase: "Shhh, non lo dire a nessuno". Un'esilarante messa alla 'berlina' di tutti i tabù e delle più ridicole paranoie delle famiglie degli ultimi 30 anni, composte da figure a tratti evanescenti e mai dai contorni definiti, come il "padre punto interrogativo", o "la zia zitella", per concludere con "la vicina con i bigodini", presentati nelle loro caratteristiche peculiari come in un documentario naturalistico di 'Super Quark'. La vis comica della Bei è decisamente simpatica. E alcune trovate, come quella delle caramelle 'Rossana', che fungono da ponte di congiunzione tra una generazione e l'altra, fanno letteralmente 'sbellicare'. Al netto dell'indubbio divertimento, lo spettacolo porta con sé una serie di riflessioni veicolate in 'chiave' satirica: la perdita del senso di famiglia; l'isolamento dei ragazzi che, come principali interlocutori, hanno gli assistenti vocali dei cellulari; l'incapacità di parlare apertamente di qualunque cosa, anche la più naturale, come il sesso, senza cedere all'imbarazzo. Spunti che sarebbe persino un 'peccato' enumerare interamente in queste righe. Il consiglio è quello di recuperare assolutamente questo spettacolo e lasciarvi trascinare in un'improbabile: "Regno molto, molto, lontano". Assolutamente consigliato.
(Giorgio Morino)
Anche voi siete qui per...
Possiamo dire, senza tema di smentita, che uno dei punti deboli dell'economia italiana sia la cosiddetta: 'fuga dei cervelli'. Quei giovani, cioè, che per trovare lavoro e soddisfazione personale fanno 'armi e bagagli', al fine di impiegarsi in aziende estere. Ciò perché è difficile, per i neo-laureati superare il primo 'scoglio' della vita lavorativa: il colloquio iniziale. Angelo Callerame ha affrontato l'argomento sul palco del Roma Fringe Festival 2017 con uno spettacolo leggero e spensierato, che cerca di faAnche_voi_3.jpgr sorridere di una situazione inquietante. Angelo è un giovane laureato in comunicazione, con una serie infinita di master e specializzazioni, ma che nonostante la notevole mole di attività contenute nel 'cv', proprio non riesce a trovare un impiego, vivendo come tanti 30enni a casa con la mamma. Insomma, "un bamboccione" avrebbe detto il ministro Padoa Schioppa. Il monologo parte lentamente e ci mette un po' a ingranare, con una prima parte che si sforza di far ridere, ma che finisce per ancorarsi su una serie di luoghi comuni, i quali, proprio in quanto tali, non smuovono più di tanto il pubblico. Poi, improvvisamente, l'intera rappresentazione assume tutto un altro sapore. Lo 'spartiacque' potrebbe addirittura individuarsi in una singola riflessione del protagonista: sarà vero che, a essere 'cattive', sono le aziende con i loro assurdi criteri di selezione, oppure la colpa è tutta dei giovani che, per non staccarsi dalla comodità di casa, si 'autosabotano' al momento della grande occasione? Dopo questa affermazione e l'effettivo svolgersi del colloquio - il momento più spassoso della rappresentazione - le disavventure lavorative del protagonista assumo una dimensione più 'umana', mostrando come, nonostante tutto quello che si possa dire, i ragazzi scendano addirittura a miseri compromessi e subiscano dei soprusi degni delle migliori dittature bolsceviche. "Lei è giovane, non ha abbastanza esperienza"; "lei è troppo qualificato per questo posto". Tutte frasi che, qualsiasi neolaureato si è sentito dire almeno una volta nella vita, insieme all'irritante: "Le faremo sapere". Una scena che Angelo Callarame evidenzia con estrema chiarezza e senza troppi giri di parole, meritandosi gli applausi del pubblico. Meritevole di considerazione.
(Giorgio Morino)
Appuntamento al prossimo anno con il
Roma Fringe Festival 2018, a partire dal mese di giugno nei giardini di
Villa Mercede in
Roma. Per partecipare alla prossima edizione, bando in uscita a
gennaio 2018 sul sito:
www.romafringefestival.it