E’ doverosa qualche
riflessione autocritica in merito ai recenti risultati elettorali. Tralasciamo ciò che ormai dev’essere considerato come scontato e cioè
il significato, chiaramente politico dell’indicazione sostanzialmente omogenea, in tutto il Paese, di un voto chiaramente
contrario al governo e alla maggioranza che lo sostiene. Semmai, qualche riflessione aggiuntiva andrebbe fatta circa la fallacia delle valutazioni della vigilia elettorale circa la sostanziale stabilità dell’elettorato rispetto alla scelta di campo che avrebbe comportato, come unica forma di espressione di dissenso il non voto o l’adesione a posizioni minoritarie collocate sul medesimo versante politico. In realtà
così non è stato, come è dimostrato sia dall’alta partecipazione al voto, sia dalla sostanziale irrilevanza numerica, ai fini del risultato finale, dei voti raccolti
sia dalla Mussolini che dalla Dc: in realtà abbiamo assistito ad un
massiccio trasferimento di consensi da destra a sinistra per un totale corrispondente a più di un milione di voti e ad alcuni punti percentuali. Certo, va sempre tenuto in considerazione il fatto che si tratta di
elezioni regionali e non politiche e che, regione per regione, ha contato anche il diverso giudizio relativo dato dall’elettorato sui governatori uscenti. Ciò non toglie che, soprattutto alla parte sconfitta, spetta l’onere di non sottrarsi ad un’analisi impietosa delle ragioni che hanno portato a questo pronunciamento degli elettori. E’ di tutta evidenza, infatti, che il voto ha più il significato di
un giudizio negativo sulla Casa delle Libertà che non quella di
un’adesione e di un giudizio positivo sulle posizioni dell’Unione.
Avremo modo, nei prossimi giorni, di discutere in modo più approfondito circa le ragioni di tale comportamento, ma è possibile, sin d’ora, formulare una prima interpretazione complessiva. Gli elettori hanno votato tenendo conto della loro
percezione della specifica situazione, soprattutto sociale ed economica, in cui si trovano ed è ovvio che tale percezione, per ragioni oggettive più che per responsabilità soggettive del governo, è fortemente preoccupata e quindi, in ultima analisi, negativa. Di conseguenza, essi risultano scarsamente influenzabili da argomenti di natura ideologica o meramente politici (del tipo di quelli relativi alla minaccia di un predominio comunista), nonché dei meri richiami agli impegni mantenuti: in tempi travagliati come quelli che viviamo, la comunità non guarda tanto alle promesse, sia pure importanti, a suo tempo ricevute, quanto all’azione delle istituzioni per affrontare e risolvere i problemi a cui si trova di fronte.
Ovviamente, in tale prospettiva, l’impressione di
una società politica chiusa nella propria autoreferenzialità e vistosamente impegnata in una sorta di campagna elettorale permanente suscita vistosa irritazione ed ovviamente di tale irritazione è destinato a fare le spese soprattutto chi ha le responsabilità di governo. In tale contesto, non poteva che risultare come un fattore peggiorativo la percezione di uno squilibrio dell’asse della maggioranza nei confronti della forza che appariva più autoreferenziale ed egoisticamente proiettata a difendere interessi parziali e di parte e cioè
la Lega Nord. Le conseguenze sono state quelle che i dati ci hanno consegnato:
la CdL ha retto lì dove la Lega Nord ha mantenuto un insediamento consistente e cioè nemmeno in tutto il settentrione ma solo in
Lombardia e nel
Veneto, ed è stata vistosamente
punita nel resto del Paese. Per di più, essa farebbe bene a non trascurare il campanello d’allarme rappresentato dal successo, nel Veneto, ottenuto dalla lista di
Giorgio Panto. In questo contesto, diventa facilmente spiegabile lo
specifico insuccesso delle liste del socialismo riformista che, da un lato, non sono ovviamente riuscite a trattenere nemmeno una parte dei voti che lo
tsunami politico ha spostato e, dall’altro, hanno dovuto addirittura, praticamente in tutto il Nord, cedere una parte dei loro stessi consensi allo tsunami medesimo.
Ne’ può essere, evidentemente, di consolazione, il fatto dell’obiettiva
tenuta nelle regioni meridionali, né il risultato raggiunto in termini di seggi né di voti complessivi di secco raddoppio rispetto alle elezioni precedenti che, ovviamente, sotto questo profilo, debbono essere considerate le scorse regionali del 2000. Il problema ora è il che fare: ed è un problema innanzitutto della coalizione e, soprattutto,
del suo leader. Sbaglia chi ritiene di poterlo semplicisticamente risolvere con un mero
spostamento di campo, alla guisa di condottieri costretti a seguire le truppe già sfuggite in una direzione non prevista, ma al tempo stesso sbaglia chi ritiene che la coalizione possa
continuare il suo percorso come se nulla fosse senza un’evidente e vistosa correzione di rotta nonché evidente riequilibrio al proprio interno. Quello che ci pare evidente è che queste elezioni segnino
la fine irreversibile dell’assetto bipolare come lo abbiamo conosciuto in questi anni ed è destinato ad uscire con vantaggio da questa situazione
chi per primo riuscirà a rendersi conto di tale realtà e tenterà di offrire una risposta capace di guidare il sistema politico italiano verso un nuovo assetto e nuove regole del gioco.
Articolo tratto dal sito www.nuovopsi.com del 5 aprile 2005