Tutte quelle forze politiche che, da un po' di tempo in qua, parlano di
'protezionismo', ci stanno ampiamente prendendo
'in giro'. Esse vogliono, in realtà, solamente il nostro
voto, al fine di supportare
un'economia sovvenzionata e
'liberticida', in cui i
Paesi più ricchi possano continuare a vendere i propri prodotti sul mercato globale senza dover minimamente affrontare la
concorrenza di quelli
poveri. Ancora oggi,
l'agricoltura è l'attività produttiva più diffusa nel mondo. E la cosiddetta
'popolazione rurale', quella che vive grazie a ciò che essa stessa coltiva, ammonta a circa la
metà degli abitanti del pianeta
Terra. Tra i prodotti più coltivati spiccano, ovviamente, i
cereali, i quali sono destinati
all'alimentazione diretta, oppure a essere trasformati in
farine o
mangime per animali. Il
frumento, innanzitutto, serve sia alla
panificazione, sia alla produzione di
pasta. Gli altri
cereali più diffusi sono, nell'ordine: il
mais, l'orzo, l'avena, la
segale, il
sorgo e il
riso. Quest'ultimo, tra l'altro, è
fonte di cibo per circa
un terzo dell'umanità. Non stiamo parlando di cose
secondarie, bensì di fattori assolutamente
fondamentali per la
sopravvivenza del
genere umano. Altri prodotti importanti sono i
tuberi: la
patata e la
manioca. Poi ci sono gli
alberi da frutta, la
vite, l'olivo, la
soia, l'arachide e gli
ortaggi. Infine, non dobbiamo dimenticare le
colture estensive delle piantagioni delle zone tropicali e subtropicali, tra cui troviamo: il
caffè, il
tè, il
tabacco, il
cacao, la
canna da zucchero e le
banane. Insomma,
l'agricoltura moderna è strettamente collegata con il
sistema economico globale. Essa fornisce la materia prima per
l'industria agroalimentare, immettendo i suoi prodotti sul mercato mondiale in cui i
prezzi subiscono frequenti
oscillazioni, favorite da
fattori politici, sociali, speculativi e, soprattutto,
climatici, come la siccità o le calamità naturali (checché ne dica, o ne pensi,
mister Donald Trump). Tutto ciò si ripercuote sulle economie dei
Paesi poveri, provocando quella cosiddetta
'emigrazione economica' che altro non è se non la diretta conseguenza di un'agricoltura ancora oggi concentrata attorno a un
numero limitato di prodotti. Ecco per quale motivo in
Africa centrale c'è la
monocoltura del cacao, mentre in quella
centro-occidentale (Senegal) vi è quella
dell'arachide: sono produzioni agricole le quali, a causa della
mancata diversificazione delle colture, imposta dai
Paesi importatori, cioè quelli più ricchi, hanno finito col
rovinare i terreni riducendone le capacità produttive, in molti casi
desertificandoli. Tutti questi enormi problemi, che ci stanno investendo direttamente, non si risolvono con il
protezionismo. Anzi, le cose stanno esattamente all'incontrario: si tratta di questioni gravissime,
causate proprio dal protezionismo e da
politiche valutarie di
cambio 'ineguale', attuate sin dai tempi della
Conferenza di Berlino del
1884/'85. La politica degli
Stati più avanzati è sempre stata funzionale a
limitare, attraverso l'imposizione dei
dazi doganali, ogni importazione dall'estero. Ovvero, ciò che oggi costringe molte popolazioni a
migrare. La
libera circolazione dei prodotti agricoli risolverebbe molti dei problemi legati alla
malnutrizione nei
Paesi arretrati. E
l'abbandono di ogni politica protezionista favorirebbe lo sviluppo
dell'agricoltura anche nel
Terzo Mondo, la cui economia viene
strangolata dalle
oscillazioni dei prezzi e dall'altissimo indebitamento degli
Stati in via di sviluppo. A tal fine, i vari negoziati internazionali di questi ultimi
25 anni si sono sempre e regolarmente
'arenati' proprio sul delicato punto
dell'abbandono delle politiche protezionistiche e sui
sussidi all'agricoltura interna. In pratica, i
Paesi ricchi prendono tutti dei
soldi, attraverso appositi fondi, per mantenere
'in piedi' le loro economie interne.
Con i soldi degli altri! L'abbattimento di ogni tariffa doganale
nell'Unione europea ha consentito il
'calmieramento' dei prezzi di numerosi prodotti, non soltanto di quelli agricoli, bensì anche di quelli tecnologici, aprendo quelle
'barriere' di mercato che stavano favorendo un
oligopolio di
'strozzini' e
'rapinatori'. In pratica, alcune potenti aziende avevano fatto
'cartello' per poterci
'ricattare' sulle
ricariche telefoniche, giusto per fare un esempio. Nell'ambito della vituperata
Unione europea sono stati presi, negli ultimi anni, tutta una serie di accordi per
incrementare la produttività agricola attraverso lo
sviluppo tecnologico, assicurare gli
approvvigionamenti dei prodotti e mantenere sotto controllo i
prezzi delle merci. Ciò ha significato:
1) prezzi comuni e fissi;
2) l'armonizzazione delle norme dei singoli Stati membri. Il
protezionismo, invece:
a) non impedisce affatto le oscillazioni di mercato;
b) favorisce assai poco la produzione interna, poiché ne riduce la domanda;
c) limita, infine, le esportazioni verso i mercati esteri, perché se cominciamo a mettere dei
dazi in 'entrata', la risposta naturale di ogni singolo Paese sarà quella, a sua volta, di
imporli contro il nostro export. Per riavviare una robusta produzione interna non serve imporre
tributi doganali: servono
sostegni economici, che rendano le aziende più competitive sui mercati. E servono
investimenti: un'ipotesi che i nostri
'grandi manager' e i nostri
imprenditori non vogliono neanche sentir
nominare, perché sperano di poter
spendere i soldi degli 'altri': i nostri, in particolare. Tutto chiaro? E' preferibile acquistare una
banana a basso costo da un
coltivatore somalo, oppure si vuole che il coltivatore di banane venga a
vivere qui da noi, con tutta la famiglia al seguito? Se
un'intera famiglia somala è giunta in
Italia sopra a un
barcone, di chi è la
colpa? Qui qualcuno mente,
sapendo di mentire.PER LEGGERE LA NOSTRA RIVISTA 'SFOGLIABILE' CLICCARE QUI
Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
(editoriale tratto dalla rivista 'Periodico italiano magazine', n. 30 - luglio/agosto 2017)