Per lunghi decenni, l'introduzione di alcuni elementi di
economia sociale di mercato è stata vista con
sospetto. La formula, infatti, si allontana sia dalle ingessate formule ideologiche
'marxiste', sia dai postulati del socialismo cosiddetto
'organico', dotato cioè di
'organi' pubblici d'intervento socioeconomico che, spesso, si tramutano in mero
assistenzialismo. Con il crollo delle ideologie e la
lama a 'doppio taglio' dell'aumento del
debito pubblico e della
disoccupazione, è cominciata una lunga e faticosa transizione da un'obsoleta concezione di
'welfare state' a un'idea assai più realistica e compiuta di
'welfare society'. Avendo contribuito personalmente a tale dibattito sin dagli
anni '90 del secolo scorso, allo stato posso rilevare come alcuni passi in avanti siano stati effettuati: le vecchie concezioni che
demonizzavano il mercato in quanto luogo economico da cui discendevano tutti i mali, oggi sono divenute assai più
marginali. Tuttavia, anche sul fronte
neo-liberista le cose non sono così
'idilliache' come sembrano: sin dai tempi di
Keynes ci si è accorti, infatti, che la vecchia concezione
liberale risalente ad
Adam Smith manteneva un carattere
selettivo, che necessitava, a sua volta, di continue
'correzioni' verso forme più eque di
redistribuzione del
lavoro e delle
ricchezze. Proprio questo limite
dell'ideologia liberale postula la necessità di un superamento della dicotomia
pubblico/privato, per passare a un
'trinomio' pubblico/privato/civile, attraverso l'introduzione di innovativi strumenti di inclusione, all'interno di un modello di concorrenza economica più
sana, leale e
razionale. Anche la distinzione
pubblico/privato, infatti, stenta a far presa, poiché tende a discriminare
segmenti importanti della società, come per esempio il mondo del
'no profit'. Inoltre, con l'avanzare della modernità si è sviluppato un preciso processo di
'conflazione' tra le due sfere, quella pubblica e quella privata. Questa parola,
'conflazione', sintetizza in sè tutti quegli
effetti giuridici pubblici che possono derivare dal
diritto privato. In poche parole: anche la
sfera privata deve contemplare e includere tutti quei problemi di
carattere pubblico che essa stessa tende a
provocare. Infine, dopo il crollo delle ideologie di massa, si è verificato un terzo grave problema, per troppo tempo sottostimato anche negli ambienti progressisti: il
sistema politico ha dimostrato di non essere più in grado di rappresentare la propria
'base' sociale. In pratica, il nostro tradizionale modello di
rappresentanza democratica non è sufficiente a coprire tutti gli ambiti in cui si esprime la vita delle persone. Ancora oggi, al
tavolo della
decisione pubblica partecipano solo quei rappresentanti che pretendono di difendere gli interessi organizzati di gruppi o di categorie di cittadini. Ma la politica ha finito con lo
'spiazzare' la società civile, poiché è stata incapace di trasformare il proprio modello di partecipazione alle
decisioni pubbliche, finendo col coinvolgere
pochi attori sociali. Per i soggetti della
società civile, spesso portatori di buona cultura e ottime idee, l'accesso alla
sfera pubblica ancora oggi significa semplicemente
l'elezione di alcuni dei suoi membri in questo o quel
Partito politico: nulla di più. Da tutto questo ne discende quella che potrebbe essere la vera novità importante di questo nostro tempo: la
'presa d'atto' dell'esistenza di un
'deficit' di
pluralismo democratico che il nostro modello di organizzazione politica e sociale ci ha lasciato. Quando ci si confronta con i problemi connessi all'aumento endemico delle
diseguaglianze, all'esplosione dei
conflitti identitari, alle nuove forme di
esclusione e così via, diviene necessario rendersi conto di cosa significhi l'aver lasciato ai margini la società, impedendole di esprimere tutta la propria
'carica progettuale'. Ed è esattamente questo il
'nodo' che nessuno dei nostri attuali esponenti politici riesce ad affrontare, poiché
distratti da un modo totalmente
percettivo e
mediatico di fare politica, affidato ai variabili e contrapposti venti delle
opinioni momentanee. Esiste un rapporto ben preciso tra dimensione della spesa sociale e livello di fiducia dei cittadini verso la democrazia rappresentativa: laddove la cultura di una
'welfare society' viene
sottorappresentata, la fiducia nei
Partiti politici e nei
governi si abbassa pericolosamente. Cominciare a muovere passi decisivi verso la
'welfare society' consentirebbe, invece, di contrastare assai meglio l'invadenza e l'arroganza di quel mondo
'amorale' e
'acivile' che, oltre a distruggere il
'capitale sociale', finisce col mettere le
'ali' a superati metodi
corporativi e
classisti di concepire il rapporto tra
politica e
interesse generale.
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Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
(editoriale tratto dalla rivista 'Periodico italiano magazine', n. 29 - giugno 2017)