Quando si torna a sbraitar di
vaccini e
antibiotici, di responsabilità e di obblighi di fronte a concetti così complessi come quello di
'salute' - o peggio ancora - di
'vita', in chi ha il vizio di riflettere si fa strada, inquietante, un'urgente constatazione. Gli strali e le scomuniche con cui vicendevolmente si prendono di mira
medici, omeopati, erboristi o chi per loro, spesso difettano di una qualche considerazione e competenza rispetto a questioni urgenti, tutt'altro che risolte. E basilari. Il problema, tutto
'cartesiano', del fondamento della lunga catena delle loro deduzioni, per esempio; la questione, posta da
Hume e
Kant, dei limiti di quello stesso procedimento induttivo che sventolano fieri ai quattro venti, aggrappati a
'inoppugnabili', ma mai definitive,
statistiche; il concetto stesso di
'scienza', di cui si appropriano rapidissimi senza capire esattamente di cosa si tratti. Per tacere del delicato problema della
trasmissione delle conoscenze, o dell'accesso diretto alle
fonti, ai
dati. Insensibili a tutto ciò,
medici e
terapeuti di ogni scuola restano
arroccati aggressivamente sulle loro rispettive posizioni, spesso molto vicine a quello
'spirito di corpo' a uso e consumo degli
eserciti in battaglia. Un senso di
'appartenenza all'Albo' utile solo a bollare come
'bufala' (semplicemente l'anagramma moderno di quel
'fabula', con cui la
censura post tridentina marchiava ogni posizione scomoda), tutto ciò che non hanno appreso nei corsi di specializzazioni o nelle università. Mai come in questo tempo, però, c'è bisogno di
filosofia e di
logica. Ossia, di
dialogo. E che questo bisogno non si avverta, ne è il segno più evidente. Non a caso, quando il
filosofo cerca di ragionare con gli
scienziati, eccoli tutti pronti a dargli dell'ignorante.
"Occupati di filosofia", gli si raccomanda con ironico disprezzo, senza nemmeno tener conto del fatto che la stessa
conoscenza medica sia nata - e sviluppata, problematizzandosi continuamente - proprio in seno alla
filosofia. Senza ricordarsi più del loro vecchio papà
Galileo, che rifiutava con sdegno l'appellativo
'matematico', ché sempre e solo
'filosofo', soleva farsi chiamare. Che tale quotidiano
'clima di guerra', dopotutto, non sia che il risultato di una
'sottocultura' appositamente
'ultra-specializzata', in cui ognuno è
esperto di una certa piccolissima sezione di chissà quale verità? Facciamoci caso: davvero questa è l'era degli
'esperti'. Tutti sono esperti di qualcosa: gli unici a non esserlo son proprio gli
'inutili filosofi'. E non certo gli impiegati di
'Sofia', quelli che studiano e insegnano la
Storia del pensiero più o meno a memoria tra i banchi di scuola. No: quelli esperti lo sono, eccome! Gli altri, invece, quelli che
riflettono, che metton tutto in
discussione, che vanno alla
radice del problema, che cercano di considerare la realtà nel suo complesso. Ecco:
quelli non capiscono davvero niente. E da quel tipo di gente urge
difendersi. Perché un
filosofo ha impresso nell'animo il vero peccato originale: quel suo ricorrere al
dubbio in una società che
dubbi non ne ha più; che pretende tutte le risposte senza mai
formulare la domanda; che ha inventato scuole che insegnano
tutto fuorché il dubbio. L'unica arte che, invece, andrebbe coltivata e trasmessa. Immaginiamoli tutti lì, invece. Tutti seduti a un grande tavolo, i nostri bravi terapeuti:
dottori, parapsicologi, omeopati, iridologi, chiropratici e quant'altro. Immaginiamo che trattengano a forza la
rabbia. Che stringano dietro ai denti la loro violentissima
voglia di insultarsi. E che, invece, da quelle stesse labbra esca, insperata, la domanda.
Solo la domanda. Che prendano a
dialogare, ad
ascoltare, i nostri sapienti. Che tornino a scambiarsi
esperienze, ipotesi, teorie. Senza preclusioni, senza pregiudizi o dogmi. Immaginiamoli un po'
filosofi, insomma. Quanto ne guadagnerebbe il nostro smarrito mondo? Quanto riprenderemmo a crescere, noi tutti, tornando a estrarre dal fodero quell'antica e meravigliosa arma del
dubbio e
dell'ascolto?
Filosofo e scrittore