"Sogno un paese laico, non quello di San Marone o del profeta Muhammad, né ovviamente di al-Hakim bi-amrillah, il padre della religione drusa. Sogno leader politici che credano nell'unità, che applicano la giustizia e la sicurezza sociale" (K. Jumblatt, 1958). Quali sono i caratteri della
laicità nel nostro testo costituzionale? Non è retorica inutile, questa domanda. Se pensiamo alla pluralità di significati che ha ormai assunto il termine
laico nella pubblicistica giuridica, al punto da rendere sempre più difficile comprendere che cosa sia uno Stato laico: una pluralità di significati spiegati nel nostro articolo precedente, pubblicato su
Laici.it. Contrariamente a quanto desiderato da alcuni esponenti politici ai tempi della
Costituente, soprattutto nel senso di affermazioni esplicite o implicite di confessionismo, così come si accenna nel libro
'Chiesa e Stato negli ultimi cento anni' di
Arturo Carlo Jemolo (Einaudi, Torino 1971) la
Carta del
1948 non contiene alcuna affermazione esplicita in ordine alla
qualificazione religiosa dello
Stato italiano. Il principio di
laicità è peraltro ricavabile per via interpretativa dalle disposizioni costituzionali che direttamente o indirettamente toccano il
fatto religioso e che, a loro volta, hanno un contenuto ascrivibile alla categoria dei principi fondamentali dell'ordinamento, ovvero quegli elementi di struttura che concorrono a definire la
forma di Stato che noi italiani ci siamo dati. Dall'insieme delle norme e dei principi richiamabili al riguardo, è agevole trarre una serie di parametri che entrano a
qualificare l'idea di laicità in riferimento al testo costituzionale. Innanzitutto, quel principio di
sovranità che non giunge a
'svincolare' lo Stato dal doveroso riferimento
all'etica naturale e ai
diritti umani quali loro giuridica incarnazione. Ma, al tempo stesso, si tratta di una
sovranità che non si estenda fino alla pretesa di disciplinare anche ciò che attiene
all'ordine spirituale. Ciò che in effetti distingue l'ordinamento costituzionale italiano da ogni forma di
giurisdizionalismo confessionista o
aconfessionista, che pure
l'Italia ha conosciuto in passato, è l'ammissione esplicita di una incompetenza assoluta in un ordine, da cui discende una
sovranità non assoluta, bensì dimensionata, relativizzata. Questo vale, evidentemente, in una dimensione per così dire
'orizzontale' per l'ordine religioso e spirituale, dato il chiaro dettato della disposizione costituzionale, i cui contenuti sono peraltro ricavabili anche dal complesso delle disposizioni contenute
nell'art. 8 C. Una
sovranità definita anche in una dimensione
'verticale', secondo un ordine gerarchico rispetto a
norme etico-giuridiche preesistenti all'ordinamento positivo, alle quali questo si deve conformare. Al di là dei contorsionismi di certa
dottrina giuridica, cos'altro vuol dire la
Costituzione quando, per esempio,
all'articolo 2 C. parla di
"riconoscimento dei diritti fondamentali"? Oppure,
all'articolo 29 C. dove è presente un riconoscimento della
famiglia come
società naturale, se non che esiste un
ordine normativo distinto e inderogabile, quindi gerarchicamente sovraordinato, rispetto a quello
giuridico positivo? E' evidente che non è piena
sovranità quella che ammette altra legge al di sopra di sé. La
laicità dello Stato comporta la sussistenza nell'ordinamento statale di un
'favor religionis', concepito non come disfavore per la
'non credenza', poiché nel caso si sarebbe davanti a una evidente e sfacciata forma di
non imparzialità dello Stato innanzi al
fatto religioso, bensì come
orientamento dell'ordinamento caratterizzato dal considerare i valori religiosi come riferimenti di segno
positivo, degni in quanto tali di considerazione e di protezione giuridica. La
laicità desumibile dalla
Costituzione italiana assicura, sia formalmente, sia sostanzialmente, la
piena libertà religiosa: non solo individuale e collettiva, secondo i canoni codificati dalla tradizione liberale, ma anche istituzionale. È qui che si coglie la distinzione con la
Costituzione 'vivente' dell'età liberale, che si ispira alla
'cavouriana' idea di una
"libera Chiesa, in libero Stato". Un principio che giunge a incidere sulla libertà religiosa istituzionale, oltre che a riaffermare una concezione giurisdizionalistica, quindi
'piena' di sovranità. La
libertà religiosa è espressa dalla
Costituzione repubblicana non solo in termini di mera
'immunità' da coercizioni esterne in materia religiosa e di coscienza, ma anche in termini positivi. Il che significa impegno da parte delle istituzioni pubbliche affinché rimuova gli ostacoli di natura giuridica, culturale, sociale e di altra natura che, in concreto, dovessero impedirne l'esercizio. Lo
Stato laico è impegnato, allo stesso tempo, a tutelare l'eguaglianza di trattamento giuridico tra individui, cittadini o nuovi acquisiti, evitando che possano darsi
ulteriori discriminazioni dovute alle proprie
credenze. La forma dello
Stato delineata dalla nostra
Costituzione, dunque, non è
'laicista', cioè
ideologica, nella misura in cui conosce la distinzione tra
ordine politico e
ordine religioso. La qual cosa assicura
un'effettiva autonomia delle realtà pratiche e terrene dalla sfera ecclesiastica e dalle norme e regole religiose. Rileviamo inoltre che tale distinzione tra
Stato e
Chiesa accolta dalla
Costituzione italiana è cosa giuridicamente diversa dalla
'separazione', che può significare ignoranza della religione e sua riduzione nel
privato o, peggio, nel chiuso della coscienza individuale. In particolare, la
laicità sottesa all'ordinamento costituzionale italiano non rifugge, bensì
'postula' una sana
collaborazione tra Stato e Chiesa, posto che entrambi, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale dei singoli individui. È quell'idea di
laicità emersa al vertice del
G7 negli interventi di
Taormina.