Camminare per le strade di
Roma nel
1592 non era certo un bell'ammirare le magnificenze della
'città eterna', quanto sentire le voci del popolo che rimandavano ai fatti:
"Quest'anno si son viste più teste in ponte che meloni in piazza". Il popolo era deluso dal comportamento di
Clemente VIII. E pensare che proprio
Giordano Bruno lo aveva definito
"un galant'homo, perché favorisce li filosofi e posso ancor io sperar d'esser favorito". Il
23 maggio di quell'anno venne denunciato per
eresia dal
Nobil Homo Giovanni Mocenigo all'Inquisizione di Venezia. Il filosofo di
Nola non immaginava che quel
'galant'homo' del
Papa, otto anni più tardi lo avrebbe fatto bruciare vivo in
Campo de' Fiori, il 17 febbraio
1600, con la lingua
"in giova", una mordacchia a impedirgli la parola. La denuncia di
Mocenigo costituì la leva mortale di tutta la vicenda processuale di
Giordano Bruno, in quanto essa comprendeva già molti dei
capi di accusa, che saranno poi elencati nella sentenza conclusiva di condanna, come la
negazione del dogma della presenza
nell'Eucarestia del corpo e del sangue di
Cristo; della
verginità di Maria e della
Trinità; la credenza nella
trasmigrazione delle anime; la pratica della
magia. A questa prima lettera, il nobile veneziano ne fece seguire
altre due in cui si aggiunsero, a carico di
Giordano Bruno, altre pesanti accuse, come quella di aver soggiornato in Paesi di eretici
"vivendo alla loro guisa". Anche
Michelangelo Merisi, arrivato a
Roma da
Caravaggio nel
1592, in concomitanza con la nuova elezione al soglio pontificio di
Clemente VIII non pensava, o meglio neanche immaginava, che tipo fosse il nuovo pontefice.
Roma osservava in quell'anno due persone in contrasto e distanti tra loro: da una parte, il
giovanotto talentuoso e vivacemente scapestrato, un
Caravaggio artista che, tra
Bergamo e
Milano, tra le opere di
Lorenzo Lotto o
Giovan Battista Moroni, aveva formato lo sguardo
all'arte semplice, una pittura che fosse
fedele alla realtà; dall'altra,
Clemente. E mai nome fu più lontano dalla realtà delle cose. In effetti,
Ippolito Aldobrandini non era un personaggio molto raccomandabile. Nato a
Fano nel
1536, affrontò l'elezione con piglio moralizzatore: vietò i festeggiamenti del
carnevale, che sarebbero stati troppo
esosi per le casse dello Stato (ci sembra di averla già sentita questa scusa, riferita alle Olimpiadi...). Non sarebbe stato certamente il
carnevale a indebolire il
'tesoro', quanto il pagamento degli stipendi della fitta rete di
spie per combattere le
'eresie', che avrebbero danneggiato le casse dello
Stato pontificio. Comunque, il nuovo
Papa proibì ai giovani di girare in gruppo di notte per il
borgo; di giocare a
carte, a
dadi o alla
pallacorda; di girare con
pugnali o altre
armi; intimò alle donne di
"restarsi in casa dopo l'Ave Maria" e di avere comportamenti casti. Insomma, delineò un modello di vita che era tutto il contrario di quello nel quale si muoveva il giovane
Michelangelo Merisi, che amava le notti a
Campo Marzio; gli amori con le
belle figliole e i loro servitori; le notti a
bighellonare da un'alcova all'altra per le stalle e gli anfratti; le armi, i giochi e le risse della vita ai tempi della
Controriforma. Ma il dissidio, seppur temperato dalla protezione di uomini come il
cardinal Del Monte, era più profondo. Basti pensare alle
nature morte del
Caravaggio: una scoperta del reale che strideva con la
pittura 'orpellosa' e la
devozione ipocrita che già dagli anni di
Sisto V, predecessore di
Papa Aldobrandini, facevano di
Roma "una città manieristica e bigotta", come diceva
Roberto Longhi, storico dell'arte deceduto il
3 giugno 1970. Ma già venti anni prima, con
Papa Pio V, al secolo
Antonio Michele Ghislieri, il grande inquisitore salito al soglio pontificio il
7 gennaio 1566 e deceduto il
1° maggio 1572, l'Inquisizione e il
bigottismo erano i
punti di forza della religione. Intransigente tanto nel governo dello Stato, quanto nella politica estera, fondò la sua azione sulla difesa del cattolicesimo
dall'eresia e sull'ampliamento dei
diritti giurisdizionali della
Chiesa. Nel tentativo di favorire l'ascesa al trono inglese della cattolica
Maria Stuart, scomunicò
Elisabetta I. Per tutti questi presupposti, il
giovane Caravaggio a
Roma sembrò subito un
irregolare, se non proprio un
eretico. Gli agiografi del tempo raccontano di un
Clemente VIII che, ogni notte e per tutto
l'anno santo 1600, restò a pregare in ginocchio sulla tomba di
Pietro. È lo stesso
Papa che, nel
1599, fece decapitare
Beatrice Cenci. L'incomprensione verso il
Caravaggio percorse sottile tutto il suo papato: fino allo scandalo della
Madonna dei pellegrini, quella vergine così reale di fronte a una coppia di miserabili, sporchi e laceri, iniziata proprio mentre
Clemente VIII, nel
1604, inaspriva l'attacco ai vagabondi, poveri e diseredati per
'ripulire' la città. Poi arriverà l'assassinio di
Ranuccio Tomassoni, per un chiarimento su una partita di calcio - la
pallacorda - e la conseguente
fuga di Caravaggio da
Roma, senza mai abiurare alla propria idea della vita, all'arte semplice, alla sua libertà d'azione e di pensiero. Esattamente come
Giordano Bruno, che un paio di mesi prima del rogo aveva fatto sapere per l'ultima volta al Papa:
"Non mi pento, perché non ho nulla di cui dovrei pentirmi".