Siamo ormai di fronte a un'evidente
deriva antropologica. Esausto dopo un viaggio di alcune ore, in attesa dell'amico fraterno che di solito viene a
'raccattarmi' in una stazione ferroviaria che ho visto troppe volte, assisto alla danza ridicola di due ragazze di una ventina d'anni, capelli viola e venti
'piercing' sul corpo, che cantando come fossero a
Sanremo - e probabilmente loro erano effettivamente a
Sanremo, perché
"deliro ergo sono" - danzano al ritmo di una musica che ascoltano tra loro, dividendosi gli auricolari, uno all'orecchio dell'una, l'altro dell'altra. Nella danza e nel cantare delle due
'amebe' non c'è soltanto un divertirsi in
'barba' a tutto e tutti: c'è, piuttosto, tutta la sconsiderata inconsapevolezza di un
'modus vivendi' che non è più soltanto una
sindrome, ma è una vera e propria
epidemìa, come quelle di
peste bubbonica che distruggevano le popolazioni europee non troppi secoli fa. L'epidemia ha a che fare con
l'atrofia di una parte del cervello, ormai incapace di distinguere il
"dove siamo" dal
"dove pensiamo di essere"; il
"cosa siamo" dal
"cosa vorremmo essere"; infine, il
"cosa vorremmo essere" dal
"siamo diventati quella cosa lì, almeno nella nostra testa". Un vero e proprio
'cancro' di
'vuotismo' che colpisce la percezione della realtà e la cui devastazione, che cominciamo appena a percepire, sarà evidente in tutto il suo
orrore tra non molti anni. Cioè allorquando ci ritroveremo in una società guidata più dagli impulsi e dalle sollecitazioni di
'pancia', piuttosto che dal
raziocinio. Probabilmente, saremo noi, a quel punto, a protestare contro gli
'establishment', invocando comportamenti più
seri e
ragionevoli al posto delle già tante, troppe,
'puttanate' che si sentono e si incontrano in giro.